
di Enrico Cavalli
La Restaurazione del 1815 nel regno di Napoli ad opera di Ferdinando IV poi I, ebbe effetti importanti per Aquila che conservava il titolo di formale capoluogo dei 3 Abruzzi per divenire sede della Gran Corte Civile d’Appello e Real liceo regionale. La città, nonostante i benefici anche fiscali ricevuti dai dinasti borbonici per il ruolo di cerniera fra Nord e Sud della penisola, respirava ancora di un passato caratterizzato da un fortissimo spirito d’indipendenza (si pensi alla libera fondazione del 1254, all’antifiscalismo del XV secolo e’600, passando per il ribellismo del 1529 contro CarloV e allo stesso moto antigiacobino del 1799). Si respirava nell’Aquilano, di quella politica dell’”amalgama” esperita dal ministro borbonico, Luigi De Medici, ovvero, una coesistenza di leggi e burocrazia murattiana e controllo paternalistico della società. Le Società Patriottiche aquilane, sorte tra la metà del secolo XVIII e la dominazione napoleonica, continuarono ad essere un centro di alta cultura e iniziative sociali al quale guardarono molti personaggi della borghesia e patriziato progressista che aveva accentuazioni nell’antico Contado. Tra questi, il nobile paganichese Luigi Dragonetti, il sandemetrano Angelo Pellegrini, il lucolano Pietro Marrelli, simpatizzanti dei moti del 1820-21 nel regno delle Due Sicilie e poi amici di Giuseppe Mazzini e Aurelio Saffi. Proprio a nord della provincia dell’Aquila, il 9 marzo 1821 ad Antrodoco, ci fu la storica battaglia prima del risorgimento italiano; le truppe del generale costituzionale Guglielmo Pepe, si scontrarono con l’esercito della Santa Alleanza venuto a rimettere sul trono di Napoli il re FerdinandoI. Tale storico fatto d’arme, ebbe per effetto la caratterizzazione militare di Aquila e ben oltre il cruciale periodo. Il gruppo di liberali e mazziniani aquilani d’accordo con quelli abruzzesi, vanamente si rapportava ai moti emiliano-romagnoli nel 1830-31 e poi nel 1833 a rivolte nel Napoletano. Nonostante le strette della polizia borbonica, in città e circondario, specie a Paganica e Arischia, le vendite carbonare, proseguirono per il peso del mondo artigiano e anche del nobilato riformatore. Nel 1841, poiché alla consueta parata di Piedigrotta nella Capitale napoletana, l’8 settembre, parteciparono reparti del presidio aquilano, si ritenne propizia per i carbonari locali, l’ insurrezione che scattò con la uccisione del comandante del castello cinquecentesco, colonnello Gennaro Tanfano, il repressore della recente rivolta di Penne, e, del suo attendente Antonio Scannella. Gli insorti, a Porta Rivera issando la bandiera tricolore, pur privi degli aiuti promessi dai contadini ma rivelatisi poco sensibili al liberalismo, battagliarono coi gendarmi borbonici e che soccorsi da truppe giunte da Sulmona, prevalsero. Le condanne alla pena capitale, comminate dall’Intendenza borbonica, toccarono cinque cospiratori artigiani e popolani nel 1842; mentre, amnistiati o incarcerati al durissimo bagno penale di Procida gli altri fautori del moto, quali il sindaco Vittorio Ciampella, patrizio Luigi Falconi, Luigi Dragonetti, barone Giuseppe Cappa e Pietro Marrelli.
In successiva visita negli Abruzzi il re FerdinandoII, cercò di rinsaldare i vincoli col conservatorismo aquilano facente capo al fedele nobilato dei Rivera e Cappelli. All’atto della prima guerra di Indipendenza italiana del 1848-49, nell’Aquilano, la Intendenza liberale del siciliano Mariano D’ Ayala assecondata dal costituzionale Fabio Cannella, ricevette scarso appoggio dal ceto urbano; l’esatto contrario dell’altra insurrezione anti regime quando le camopagne furono riottose e con ciò facilitandosi la repressione borbonica. Ci fu l’arresto di Marrelli, scampato dopo altri anni di carcere in Irlanda dove conobbe dei militanti garibaldini, di Cannella, Cappa, Pellegrini, mentre Luigi Dragonetti periva alla difesa della repubblica di Venezia.
Conobbe una inevitabile fase di riflessione il risorgimentalismo aquilano, a fronte dei Borboni, che da un lato difendevano l’ancien regime, dall’altro, davano il via libera a progetti ferroviari abruzzesi e alla Cassa di risparmio cittadina poco prima della Seconda guerra d’Indipendenza italiana del 1859-60, con una union sacreè che a dire il vero fu trasversale politicamente; dietro il secondo itituto creditizio del reame, stavano sia il vescovo ed economista Luigi Filippi di origine lucana e le leve progressiste della vetusta Società Patriottica.
Nell’Aquilano, le fila dei mazziniani e garibaldini, che fossero o meno elitarie, persero consistenza, in quanto alcuni si avvicinarono alle idee neoguelfe (Federazione di Stati italici sotto la guida del Papa, pensata da Vincenzo Gioberti), altri al socialismo (Italia repubblicana e di eguaglianza fra classi, pensata da Giuseppe Ferrari), soprattutto, prese forma il partito di coloro che puntavano alla unificazione italiana sotto la dinastia dei Savoia.
Per effetto della fulminea spedizione dei Mille in terra sicula, di Giuseppe Garibaldi nel maggio 1860, nonostante la concessione della costituzione liberale, il re FrancescoII vide il suo trono vacillare e anche nell’Aquilano il reggimento borbonico si sfaldava. All’entrare delle camicie rosse a Napoli e dei piemontesi nelle Marche pontificie, la municipalità aquilana nominò il Triumvirato di Federico Papa, Fabio Cannella (costui sindaco), Angelo Pellegrini e che il 7 settembre 1860 (l’anniversario della sollevazione del 1841!) sfilava nel corso principale cittadino tra folla festante di tricolori, al grido di: “Viva l’Italia una, Viva Vittorio Emanuele, Viva Camillo Cavour, Viva Giuseppe Garibaldi”. Qualche sporadico tentativo filoborbonico, cadde alla notizia del passaggio fra le fila italiane del generale De Benedictis. Marrelli fu chiamato a Napoli per il Comitato di salute pubblica, ma poi visti esiti a suo giudizio moderati del governo provvisorio, fece ritorno assieme a Giuseppe Mazzini, ad Aquila che intanto aveva dato il compito a Salvatore Tommasi di presentare la petizione di annessione dei capoluoghi abruzzesi a Vittorio Emanuele II sceso dalle terre marchigiane per incontrare Garibaldi.
Quanto all’atteggiamento della Chiesa aquilana dinanzi a questi incalzanti fatti, da un lato, cautelativamente, riparò in Stato pontificio il presule Luigi Filippi, per poi durante le leggi laiciste del 1866 tornare in città e realizzarvi l’Arcidiocesi nel 1876; dall’altro, diversi religiosi sinceramente aderirono al risorgimento nazionale.
Questa classe dirigente aquilana, si presentava al tornante unitario, timidamente ostentatrice del plebiscito di adesione provinciale di oltre sessantamila voti e poi del ruolo del marchese e deputato Giuseppe Pica Alfieri nella repressione del brigantaggio a tinte borboniche e che fu nell’Aquilano un fenomeno per niente trascurabile anche in ottica delle cruciali realizzazioni ferroviarie per un area di montagna, fino al 1870.
Nei nuovi equilibri dello Stato unitario, che paventavano l’accorpamento degli Abruzzi (tale denominazione regionale assieme al Molise, sino al 1963) ad entità viciniore, l’Aquilano dovette difendere la sua identità storico-amministrativa.
Il sindaco di Aquila degli Abruzzi (questo, il nome della città fino al 1939 quando sarà “L’Aquila”), rivolse una serie di richieste al Parlamento italiano costituitosi il 17 marzo 1861, tra cui: mantenimento delle strutture amministrative e giurisdizionali; sviluppo delle scuole universitarie; creazione di un istituto per arti e mestieri; realizzazione della ferrovia verso il Lazio (ora Pontificio) e per l’Adriatico; riconoscimento ufficiale alla città del ruolo di capitale abruzzese; ingresso nella provincia aquilana della Sabina reatina.
Trattavasi, allora, di riaffermare una funzione di cerniera della municipalità sorta nel 1254, nell’area mediana della penisola, in linea al contributo e sacrificio dei patrioti aquilani, per la formazione dello Stato italiano, come dalla lapide apposta alla casa di Pietro Marrelli in pieno centro storico del capoluogo abruzzese, ovvero, alla via Giuseppe Mazzini.