
di Vincenzo Battista
Tommaso da Celano, biografo di San Francesco: ”[i]Francesco era felice[/i] – racconta – [i]profondamente commosso: Si rivestì dei paramenti diaconali e cantò con la sua bella voce il Vangelo, predicò con parole bellissime, trascinò e entusiasmò gli astanti rievocando la piccola città di Betlemme, il Bambino divino e poverissimo, con tale entusiasmo che un cavaliere ebbe una visione; gli sembrava infatti che un neonato giacesse esamine nella mangiatoia, che il santo di Dio si avvicinasse e destasse quel medesimo Bambino da una specie di sonno profondo. Questa visione non mancava – continua Tommaso – di un suo significato perché davvero il Fanciullo Gesù giaceva dimenticato nel cuore di molti, per grazia di Cristo, tramite il suo servo Francesco, fu resuscitato e il suo ricordo impresso in una memoria di nuovo partecipe”[/i].
E’ una rivoluzione che si compie. Nulla sarà come prima. Le parole di San Francesco diventano tridimensionali, si modellano a tutto tondo fino a formare sculture, aprono un varco nell’immaginario collettivo popolare; i personaggi prendono posto nello scenario del [i]praesepium[/i] (recinto chiuso o mangiatoia), mentre la gente del Santo della Regola abbandona la paura ancestrale paleocristiana del mistero di Dio che si fa uomo, lascia il racconto evangelico, teologico, colto, letto in chiesa attraverso i testi in latino, per la religione popolare e “guarda”, è sufficiente solo quello, insieme ai monarchi del clero, lo spettacolo della “narrazione” del Vangelo che il presepio rappresenta.
E’ questa la scoperta, la rivoluzione della comunicazione con gli strumenti della semplicità, dell’allegoria scenica della Natività, immediata, diretta, universalmente comprensibile che si compie in quella notte del 1223 a Greccio, in Umbria: il presepe vivente voluto da San Francesco, l’elevazione della povertà, l’obbedienza a quella chiesa e non a un’altra, secondo il disegno francescano e delle sue fonti. Greppia e paglia, fiaccole, animali, pastori e povertà, paesaggi quotidiani; la trascendenza di Gesù e la sua giovane Madre.
Può bastare a Giotto, che dipinge l’affresco “La nascita di Gesù e l’annuncio dei pastori” nella Cappella degli Scrovegni a Padova, per innovare, a partire da lì, quella saga della Natività che diventerà vera e propria iconografia di riferimento universale della storia dell’arte e formazione del linguaggio dei pittori: varcherà stati e regioni, diventerà nel corso dei secoli anche patrimonio locale.
“[i]La secchia[/i]”, in legno, per portare l’acqua allo stazzo; le “[i]fuscelle[/i]” per contenere il formaggio e ricotta. Anche questo può bastare al maestro (anonimo, fine XIV Sec. – inizi XV) del Trittico di Beffi esposto in questi giorni nel salone della Banca d’Italia a L’Aquila, per dare quel valore localistico al grande tema della Natività. È un’opera del ‘400 abruzzese, tempera su tavola di raffinata tendenza senese scesa giù oltre le plaghe della remota montagna abruzzese (proviene dalla chiesa di Santa Maria del Ponte, Tione degli Abruzzi) per ritrovare anche nell’opera d’arte i segni visuali minori, interpretativi del patrimonio locale, storicizzazione del paesaggio che si è modificato, “le eredità culturali delle zone geografiche – storiche”, così le chiama lo storico Jacques Le Goff.