
di Vincenzo Battista
L’acqua purifica, ha lo scopo augurale, lava i mali: ”[i]Si doveva bere[/i]”, dicono, in una sorta di rito pagano che riusciva a convivere con l’Istituto religioso, con la Chiesa, mentre persino si ignoravano il sacro e il profano, all’inizio dell’anno, quando si consacravano i patti, le alleanze, i matrimoni; ma era anche il punto di partenza per ristabilire le unioni nella sfera sociale nella piccola comunità di Cansano, che spesso doveva impegnare le donne.
L’acqua quindi, simbolo, potere, propiziazione, “[i]il bene assoluto per le campagne[/i]”, veniva accettata per credere all’azzeramento di bilanci negativi, contro le miserie, le vessazioni diffuse a quei tempi come raccontano le inchieste agrarie sulle condizioni di vita dei contadini, e salutare il nuovo anno, come in un rito primordiale: scendeva nel villaggio alle pendici della Majella, aleggiava nell’immaginario collettivo, nelle aspettative di una nuova, migliore, stagione agricola che avrebbe, alla fine, riprodotto solo se stessa.
Questo è il racconto dell’acqua e della sua tradizione popolare: ”[i]Dalla Canala, la contrada è chiamata così; c’era una fontana e un viale d’acqua, un ruscello. Si andava a risciacquare i panni e a prendere, a cogliere, l’acqua fresca, a capodanno. Le giovani, con le conche, se la mettevano in testa e la portavano in casa del fidanzato, con la banda. Si chiamava l’acqua nuova. Erano, ogni anno, circa dieci coppie, in corteo. Indossavano il vestito di Cansano, il costume tipico. Davanti alla porta aspettava la madre del fidanzato che prendeva la conca e la poggiava dentro l’anello di ferro, in cucina. Questo rito si faceva molto tempo fa: lo raccontava mia madre, Giacinta D’Orazio, nata nel 1895[/i]”.
Scrive lo storico e folclorista Giovanni Pansa (1865-1929): “[i]La notte che precede il Capo d’anno i giovani prendono possesso delle fontane pubbliche e quando albeggia giungono le donne per attingere l’acqua. . . i poveri poi portano alle case de’ signori per buscarsi l’elemosina l’acqua gnova[/i]”, ricordata anche da Ovidio, nei Fasti. Nella notte di San Silvestro veniva accompagnata da una filastrocca: “[i]San Silvestro con le chiavi d’oro (chiude l’anno), facciamo la santa festa, con la santa signoria. Oggi è calende, domani è l’anno nuovo. Ciufulitto, ciufulitto, se puoi dacci una pizza fritta, tutta la notte ti resto a cantare; dammi una pizzella che tu possa fare una bambina; dammi un carracino che tu possa fare un bel maschietto; dammi una castagna che tu possa fare il re di Spagna. Alzati padrone e dammi qualche cosa a questo paniere. Se tu non me lo vuoi dare, tutta la notte ti resto a cantare”[/i]. Veniva recitata dalle compagnie, dai gruppi di ragazzi che si riunivano dietro le porte delle case e poi andavano dai genitori, con un palo, una scopa, per la “[i]vattuta[/i]”, e dicevano: ”[i]Ti batto a Capodanno, ti batto tutto l’anno. Lascia i vizi vecchi e prendi quelli nuovi[/i]”. “[i]Aspettavano un regalo[/i] – conclude Pasqua D’Orazio – [i]un soldo, tre soldi, arance, mele, i carracini. . .[/i]”.
“[i]O belle notte, quante ne recorde a stu paese ch’ama na canzone! O antica e bella tradezione, tu pe passione, – nen ce fè durmì. . . Canta ogni core, ca dentro sta nuttata se chide na pagina de vita – e all’alba nova cerca felicità e fortuna[/i]”. Nella cabala delle vie, strette e cordonate del borgo, scavate in alcuni punti nella roccia, sicuramente nessuno dormiva in attesa che quelle melodie nella notte si alzassero, tristi e struggenti serenate di Carrara e Setta, i due cantori del “cerimoniale” della notte di San Silvestro, in una Pettorano sul Gizio del 1928, alla ricerca di un incantesimo, per proteggere la comunità a poche ore dalla luce del giorno che avrebbe annunciato e sancito il nuovo anno “[i]la nuova vita[/i]”. Strazianti, premonitrici, a volte suggestivi, i versi augurali dei canti, velati di malinconia, si racconta, venivano recitati anche nel buco della serratura delle case contadine, perché tutti fossero “[i]toccati[/i]” da quel fluido narrativo e resi immuni davanti alle sfide dei raccolti, delle annate agricole, ai viaggi dei tagliatori di legna e delle compagnie dei carbonai verso le paludi Pontine o nella Maremma, oppure nei lavori artigianali, dei fabbri, che nella notte stessa battevano sugli incudini gli spiedi in ferro dei camini, simbolo di prosperità e di buon augurio per offrirli al vicinato: “[i]Cosa fatta a Capodanno si rifà per tutto l’anno[/i]” diceva mastro Oreste, l’ultimo fabbro del paese, ma senza crederci abbastanza, raccontano.
Capodanno, la festa pagana, quindi, stipata in una nicchia dove tutt’intorno si muove un ampia simbologia religiosa iniziata con il Natale, che si “percorre”, fino ad arrivare a quella “curva”, il periodo più basso del solstizio d’inverno, il punto critico: la fine dell’anno, che custodisce in questo antico borgo un rapporto quasi filosofico con la sospensione del tempo e la natura. E questa si ferma, come attestano le leggende popolari: le acque si bloccano, i tesori si rivelano e i miti della montagna assumono sembianze fisiche per incontrare la gente del luogo.
E’ la festa del desueto, questo capodanno, la “macchina del tempo”, la soglia simbolica degli incantesimi ludici da attraversare con la cerimonia della prosperità, le serenate augurali, la questua, ancora oggi riproposte dai gruppi di persone che si formano spontaneamente e girano nel paese di Pettorano sul Gizio per tutta la notte e oltre l’alba.
Scriveva lo storico Pietro De Stefhanis nel 1856: ”[i]. . . Naturalmente inclinati al rito poetico, di tempo in tempo sorge loro qualcuno che alla lettura del Tasso, del Metastasio o di altra raccolta poetica, impara a tessere qualche ottava. Ogni loro canzone è dunque un’ottava che non è già scritta in vernacolo, ma i cantanti la travisano nella pronuncia. . .[/i]”, nel dialetto forza narrativa della cerimonia, del canto che separa il passato e annuncia il futuro nella scia di quell’universo calendariale del mondo contadino.
La mattina del primo gennaio, si racconta, giravano i poveri; chiedevano “[i]la strina[/i]”, una minestra di legumi, fave e grano, per iniziare l’anno nel nome di quella solidarietà non solo toccata dal canto.