Quei fuochi nella notte contro il Signore del Male

di Vincenzo Battista
L’ATTESA – Anche nel film “[i]Il Signore degli Anelli – Il ritorno del re[/i]”, i fuochi nella notte si alzeranno, dapprima lentamente, il primo darà il segnale e poi tutti gli altri, in sequenza, rischiareranno molti luoghi della valle, con i loro barlumi formeranno una catena di messaggi, in codice, trasmessi, che valicheranno le montagne, attraverseranno le pianure, per contarsi e iniziare la battaglia nella notte gelida di questo 17 gennaio, contro il Grande Male, il demonio in agguato che muove le sue truppe per prendere i raccolti, distruggere i borghi, rapire le cose, straziare uomini e animali in nome di un Signore degli Abissi, che, da queste parti, dicono di conoscere bene.
{{*ExtraImg_238572_ArtImgRight_300x211_}}I fuochi vigileranno, qualcuno resterà a controllare fino a all’alba, come vuole il protocollo della notte, che scaccia il Grande Male che solo il fuoco può combattere, lo stesso che segnerà e pettinerà ancora questo paesaggio-territorio degli uomini come da secoli immemorabili; dalla stessa brace dei fuochi si traevano una volta gli auspici per il lavoro, gli animali e, se non bastava, qualcuno all’alba si portava via anche la cenere del grande falò per spargerla sui campi e nelle stalle, come in un antico rito pagano propiziatorio, oppure veniva conservata come fosse una reliquia; così si mostrerà questa antica diocesi della valle dell’Aterno fino a Villavallelonga nella Marsica, una contea da difendere, proteggere, attraversi i fuochi, purificatori, simboli ma soprattutto messaggeri della luce nella notte rituale di spettri e incubi, ricordi che affiorano e tratteggiano una arcaica società che riemerge, si guarda e si conta aggregata intorno ai propri miti mai spenti.
LA CARNE DEL MITO-SANTO – Quando se lo sono visto mezzo insanguinato liberarsi dal “tinaccio” e fuggire tra le due schiere degli edifici di “Case Lupi”, frazione di Sulmona, per un momento nessuno ha avuto il coraggio di inseguirlo; qualcuno avrà pensato ad un sortilegio, ad un atto di stregoneria e poi magari qualche donna è rientrata subito in casa e si è fatta il segno di croce per allontanare i malefici. Non è stato semplice riprenderlo. “Ma ormai era fatta” raccontano.
{{*ExtraImg_238573_ArtImgRight_300x383_}}E quella semplice attività di cultura materiale che ogni anno, a gennaio, si ripete, e stata consegnata a una delle tante immagini dell’almanacco del piccolo borgo posto alle pendici del Morrone: quella del maiale, appunto, raggiunto, infine, finito di scannare, “giustiziato” direttamente sui campi che si aprono nella conca peligna, come del resto illustrano le miniature del XIII secolo che rappresentano le allegorie del paesaggio e degli antichi mestieri medievali e quello esclusivo del “porcaro”, con il suo epilogo . . .
{{*ExtraImg_238578_ArtImgRight_300x218_}}”[i]Mentre ero seduto presso un camino [/i] – scrive Edward Lear, viaggiatore inglese in terra d’Abruzzo nel 1843 –[i] che ci deliziava del suo fumo[/i]”, commenta sarcasticamente, [i]sono stato sorpreso perché sono entrati parecchi grossi maiali che hanno attraversato la cucina, se così si poteva chiamare, e sono andati dentro una stanza dove dovevo dormire: ‘Sapete che ci sono entrati i porchi?’, ho detto alla buona Lionara. ‘Ci vanno a dormire’, mi ha risposto candidamente. Ho pensato: finchè ci sono io, essi non ci dormiranno: perciò li ho cacciati fuori senza indugio e con ciò ho dato motivo di grande meraviglia a tutta la famiglia’[/i].
{{*ExtraImg_238574_ArtImgRight_300x187_}}A “Case Lupi”, invece, l’impianto storico delle due lunghe file a schiera delle case rurali dei coloni costruite intorno alla metà dell’Ottocento avevano riservato all’allevamento del maiale la “stiparella”, lo “sturillo”: un vano in ogni casa, un sito di tutto rispetto per proteggere e controllare l’unico e insostituibile “bene” materiale della società contadina, poiché già da qualche secolo prima, nel 1500, una prescrizione speciale negli Statuti della Bagliva di Sulmona ribadiva che “[i]nullo porco maschio o femmina non dabba andare per la città né di giorno né di notte[/i]”.
Il detto comunque era: “[i]Del maiale non si butta niente[/i]”. Un’economia familiare, una “rascia” come dicono da queste parti, una garanzia per la famiglia da distribuire oculatamente per tutto l’inverno fino alla mietitura, con grande attenzione.
{{*ExtraImg_238579_ArtImgRight_300x409_}}Tutto iniziava molti mesi prima : “[i]con l’acqua di agosto, olio lardo e mosto, rinfresca l’aria e il maiale cresce[/i]”, dicevano i contadini. Si raccoglieva poi in montagna il “tumacchio”, il timo della montagna, “selvatico e profumato” utilizzato per bruciare i peli, “[i]per pelare il maiale[/i]”, prepararlo, prima della macellazione.
Il “norcino”, si racconta, scambiava il lavoro, barattava: la preparazione delle,carni equivaleva ad una giornata di lavoro nei campi che gli veniva resa. La testa del maiale, bollita, si macinava con il cotechino; gli intestini utilizzati per gli insaccati e la vescica per contenere lo “strutto”, mentre la ventresca si appendeva, si tagliava a fette per le minestre e il grasso infine per il sapone. Persino il sesso dell’animale veniva utilizzato per pulire le scarpe e anche le unghie per ricavare, raccontano, qualche bottone. Con la pelle ispessita del lardo si ingrassavano gli utensili per lavorare nei boschi. Ma la lavorazione del maiale considerata quindi un rito, si apriva con il “sanguinaccio”, il flusso di sangue caldo che usciva dal collo dell’animale sgozzato: non bisognava farlo coagulare, si raccoglieva sotto l’animale morente e velocemente si iniziava a girare in un tegame con i noccioli di mandorle e noci, buccia di arancia e mosto cotto.
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IL SUO ARRIVO – Terracotta policroma, ma ormai con poche tracce, (alta appena 124 cm. Museo Nazionale D’Abruzzo) di un fisico corpulento, imponente, pesante (le mani sono andate perdute), ancor più evidenziato dal saio monastico di grezza lana che lo avvolge, pensieroso, guarda in basso con la sua grande barba, alla ricerca e al “controllo”, forse, come vuole la sua iconografia ricorrente, del maiale: uno degli emblemi, segno rappresentativo e figura simbolica, insieme al bastone tau, il fuoco e i campanelli che annunciano da lontano l’arrivo dei questuanti, del suo ordine antoniano. Ma molto tempo prima, la scultura in terracotta di Sant’Antonio Abate ‘abitava’ nella chiesa di Santa Maria del Ponte (Tione degli Abruzzi), la grande collegiata del medio Aterno, su un altare, fin dalla sua realizzazione tarda ad opera di Saturnino Gatti (sec XVI).
{{*ExtraImg_238575_ArtImgRight_300x216_}}Sant’Antonio Abate, liberato definitivamente nella sua notorietà dalla Leggenda Aurea di Jacopo da Varazze (sec. XIII ) che ne divulgò la fama taumaturgica, mentre proprio in Abruzzo è presente l’immagine più antica che si conosca, risalente allo stesso tempo di Varazze, conservata in un affresco nell’eremo di Sant’Onofrio, sito storico del monte Morrone, dimora scavata nella roccia, dove visse Celestino V. Ma intorno alla sua scultura, oltre la confessionale e austera modellazione iconografica dell’argilla, poco più in là del suo perimetro miracoloso e soprannaturale dell’altare della chiesa, il borgo medioevale, murato, a forma di testuggine, di Santa Maria del Ponte, si trasformava, trasfigurava, il 17 gennaio, idealizzava una società attraversata dalla santità “capovolta” del santo abate, dalle sue gesta, e soprattutto dai suoi numerosi simboli miracolosi che divenivano buffe e giocose narrazioni.
{{*ExtraImg_238576_ArtImgRight_300x195_}}Un gran palcoscenico, una grande rappresentazione medioevale, un’azione scenica spontanea a tutto campo per nome e per conto di Sant‘Antonio Abate entrava in azione tra i vicoli, piazzette e slarghi, con la “Commedia”, il riso, lo scherno: la satira derisione affidata a saltimbanchi improvvisatisi nel paese delle rappresentazioni burlesche, derivate dalla tradizione giullaresca medioevale, in abili sonetti, strofe recitate, stratagemmi in definitiva per ingannare i diavoli tentatori, sottraendo loro alcune anime . . . ”giravano” fino a notte fonda, poiché erano ancora alcuni personaggi del borgo e il corteo di musici che bussavano alle porte delle case con un ricchissimo patrimonio di aneddoti, leggende e con il tema, sempre ricorrente, della lotta del santo contro il diavolo, immaginato ad insidiare le virtù ascetiche del santo anacoreta “Antonio, del deserto”.
{{*ExtraImg_238577_ArtImgRight_300x217_}}Il borgo doveva allora essere “bonificato”, per l’appunto, esorcizzare il male era l’imperativo, il fine, salvaguardare una società chiusa e stretta intorno ai suoi dilemmi agrari e ai suoi idoli, quando alla chiusura delle porte del paese il santo magmatico doveva battersi contro l’ingiustizia e la colpa del diavolo; allora si alzavano i fuochi protettivi contro le malattie, il male, e i campanelli risuonavano, e i maiali erano lasciati liberi di vagare per essere nutriti dalla popolazione, accolti davanti la case, identificati come Sant’Antonio Abate guaritore e soccorritore della cultura contadina, e della sua forza lavoro, rappresentata, appunto, dagli animali e dalle immagini votive poste sopra le credenze e i comò, e nelle stalle vicino agli animali, illuminati appena dalle virtù di un altro simbolo, fondamentale per loro: la luna piena del 17 gennaio.
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LA BATTAGLIA – Le diavolerie si scatenano, le tentazioni prendono forma di inquieti elementi meccanici, indecifrabili, coacervi di corpi umani, membra viscide, bocche di rospo corazzate e orecchie che escono da gambe rachitiche; tutto si agita intorno alla serenità contemplativa del santo, e perché no, anche del suo maiale che con le zampe conserte è accovacciato di fianco, ma entrambi sembrano ignorare tutto questo, guardano l’orizzonte, sembrano distanti da questa materia d’inferno; la meditazione del santo, tuttavia, è messa a dura prova dal demonio materializzato in armature-grillo-demonio, forme antiche dell’incubo, dell’angoscia arcaica che l’uomo si porta dentro: paura ancestrale di antichi retaggi del maligno sovrano, regnante, manifesto. E il tormento continua: figure femminili dentro le quali si nasconde il diavolo-pesce o demonio-grilli che fissano il santo; oppure il diavolo–nano che legge il messale e lo assilla. Escono dalla penombra del paesaggio in una esplosione visionaria, violenta, sanguinaria di mostri feroci, parodia diabolica del male che si materializza.
I diavoli hanno preso possesso, la città è in fiamme, il cielo è solcato da navi-uccello, pesci volanti, il paesaggio è devastato, ma Lui, l’anacoreta dalla faccia buona e saggia, paziente, continua le sue ascetiche meditazioni, tranquille: la sua forza, inespugnabile agli assalti, alle devastazioni, anche alle tentazioni della lussuria; e intorno solo grida e lutti.
La magia del maligno e il pullulare di figure inquietanti di demoni squamosi, forme immonde, non possono nulla contro il simbolo che rappresenta, contro Sant’Antonio Abate, padre del monachesimo, detto Il Grande (nato nel 251 a Coma in Egitto e morto il 17 gennaio del 356 nel mar Rosso, in un convento). L’ultima barriera eretta contro l’attivismo sfrenato diabolico, di tutti i tempi.
L’unico modo per vederla, questa trascendenza del male che diventa immagine così come esce fuori dalla mente (sembra quasi un catalogo ragionato delle più blasfeme e immonde tentazioni), è guardare le tele del “Trittico degli Eremiti”, oppure le “Tentazioni di Sant’Antonio” di H. Bosc (1453 -1516), il pittore fiammingo che più di tutti ha interpretato, avvicinato, si è spinto il più possibile avanti, per rappresentare l’iconografia del male, inconfessabile, criptata per secoli, dentro la “Passione“, appunto, della vita del santo eremita, Sant’Antonio Abate l’asceta del deserto, il Signore degli animali e dell’ultima difesa contro le creature inviate dal demonio tentatore.
Dall’herpes zoster, o “fuoco di Sant’Antonio”, affezione che colpisce le cellule nervose con fenomeni epidermici lungo il decorso dei nervi (diventano le città che bruciano), agli ospedali (la tolleranza e la sconfitta del male); dagli animali, in particolare il maiale (rappresenta le campagne, il mondo rurale medioevale, il girovagare alla ricerca di un ricovero, la solidarietà) ai falò (le cataste in fiamme riuniscono le comunità, l’aggregano intorno ai comuni ideali) Sant’Antonio Abate è il custode e protettore taumaturgico, che così cala le sue competenze, mostra il suo patronato, stende i suoi segni profetici soprattutto nel mondo rurale antico, attento e ansioso di cicliche rassicurazioni, e infine passa all’offensiva arginando gli assalti infernali con i fuochi che si alzeranno nella notte del 17 gennaio. Molti centri, in particolare nella Marsica, rinnoveranno il patto non scritto, secolare: bagliori nella notte gelida, fiamme, messaggi antichi, alla ricerca di una identità perduta.