
di Vincenzo Battista – Le pietre le hanno tolte, rimosse, una per una strappate al paesaggio e riposizionate dopo, per lungo tempo, per decenni, sotto nuove forme in una pratica che consisteva, si fondava, inizialmente, nell’estenuante lavoro di rendere i terreni estremi, d’alta quota, fertili, bonificati, finalmente liberati e rimessi a coltura. Ma non era sufficiente. Da questo paesaggio del Gran Sasso, togliere e aggiungere, levare e spostare, sommare e incorporare, unire le pietre, era la regola, lo scopo ultimo, il modo naturale di rispondere e sfidare la natura che il suolo, unito e legato indissolubilmente alle aggregazioni umane, permetteva nell’attività agricola e nella più consistente e densa pratica pastorale che è diventata tutt’uno con la montagna.
{{*ExtraImg_31974_ArtImgRight_300x461_}}Quel che resta si affaccia sopra la coltre di neve, sbuca, su quell’improbabile luogo lunare dai grandi crateri che scendono nel luogo chiamato Piano di Rotigliano (la valle del Vasto lì, inizia a scendere), dalle buche fitte e continue che si formano interrotte da brevi terrazzamenti, dal terreno ondulato e solcato dai detriti portati dalle acque, dai fondi lacustri sotto di noi, mentre attraversiamo i 1450 metri di quest’area, forse la più importante degli Appennini per concentrazione, tracce e tecnica costruttiva risalente agli antichi insediamenti umani seminomadi delle comunità di Arischia, Assergi e Camarda, quasi senza tempo…
Pietra e pietra, non c’è altro, che finisce quasi per modellare, plasmarsi, come se si trattasse di materia altra ed assume su di sé un disegno concettuale; il suolo s’impregna d’informazioni, diviene progetto, l’alzato architettonico è in equilibrio con l’habitat montano, sintesi costruttiva contadina e pastorale che non necessita di manodopera specializzata: sono quindi quelle casette, i locali, i villaggi pastorali, masserie, capanne a tholos, cappelle votive, segni sparsi di confine di proprietà, muri di terrazzamento, cumuli in pietra, stazzi recintati, “mandroni” dalle alte mura: un mondo inconsueto si apre, una società senza scrittura si rivela, ma dalle tecniche costruttive raffinate, consolidate, emergono appena dalla neve, muti complessi e cellule di un passato raccontano quella capillare e fondante ricca economia montana, un tempo, dal versante Occidentale del Gran Sasso, alle pendici di monte S. Franco che sprofonda, si dissolve oggi, si disunisce dal paesaggio, ritorna alla pietra da dove era partita, alienata purtroppo all’interno del Parco del Gran Sasso.
{{*ExtraImg_31975_ArtImgLeft_300x561_}}L’intera rete materiale di comunicazioni e giacimenti materiali, dall’alto valore simbolico, legge la storia della nostra regione ancora per poco e narra ancora storie di pietra con il potere di sottrarre e addizionare lo spazio fisico, rendere sicuri i ricoveri, tracciare le vie, antropizzare un “angolo” del Gran Sasso attraverso siti certi, condivisi, che hanno creato forme devozionali religiose, miti incontrastati della montagna: pietre divenute in definitiva scrittura, parole, narrazioni di codici di comunicazione, non quindi mucchi, detriti sparsi, muri cadenti solitari. Ma il racconto della pietra s’infittisce con i toponimi, i nomi dei luoghi leggendari prendono possesso della pietra e si caricano di significati subliminali: “Jalli Remposti”, una masseria, ai bordi di una depressione è il simbolo del mistero; è la metafora d’accadimenti arcani, preziosi, che non sappiamo più proteggere.
(Seconda di cinque parti)
[Fotografie: Vincenzo Battista]
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