
Produrranno non uno ma infiniti effetti domino gli avvenimenti che, in questo maggio freddo e atipico, stanno stravolgendo tutte le geografie emiliane. Tra queste, e non se ne parla mai che sembra un aspetto secondario, quella relazionale.
A tre mesi dal sisma che distrusse L’Aquila nell’aprile del 2009 ilcapoluogo.it pubblicò un mio articolo che proprio di questo parlava. Sull’argomento, poi, non sono più tornata. Non perché le cose siano rientrate ma perché a tutt’oggi si assiste ad uno scostamento dalla media “normale” che racconta una storia che nessuno vuole leggere e pochi raccontano.
La coppia non esce necessariamente rafforzata dall’evento catastrofico, anzi. E molte sono le variabili intervenienti: lo stress, le nuove conoscenze, le eventuali scissioni collocative dei nuclei, la paura, la consapevolezza epidermica della morte, convivenze perduranti in ambienti piccoli e angusti.
Coppie considerate di ferro si sono sbriciolate come friabilissimi grissini torinesi. Altre, magari un po’ zoppe, hanno trovato nuovi obiettivi comuni da condividere.
Eppure è ancora presto per poter leggere i dati e scrivere teorie.
Il trauma, qui all’Aquila, è ancora fresco. La cicatrice non è risolta.
La scienza sociale è scomoda perché non risponde alla velocità che la società e la politica, almeno in certi Paesi e il nostro è uno, vorrebbero.
L’Emilia crolla. L’Aquila, soffocata, è ancora a terra.
Il terremoto non è un evento mediatico. E’ elemento che sovverte equilibri, geologici e non solo.
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“Sono passati tre mesi, da quella notte. E sembrano anni, per certi versi. Minuti, per altri.
Niente ha il sapore della normalità. Dell’abitudine. Ma la normalità e l’abitudine bussano – e prepotentemente, anche – alla porta della quotidianità.
Tutto un tessuto sociale è entrato in crisi. Ma parlare di tessuto sociale soltanto non ha senso. Ogni tessuto è composto da più componenti. Se entra in crisi il tutto, entra in crisi TUTTO.
La coppia.
Moglie e marito. Conviventi.
Diadi vive. Sopravvissute. Scampate. Grate al destino. Abbracciate. Amanti.
Intolleranti. Insofferenti.
Ogni rapporto può entrare in guerra contro i più temibili tra i suoi nemici: le componenti della coppia stessa.
All’attaccamento iniziale, al [i]“mio Dio, avrei potuto perderti”[/i], subentra il fastidio della presenza assidua, protratta in luoghi di non appartenenza (le tendopoli, gli alberghi), di negazione di ogni possibile forma d’intimità.
In un contesto come quello in cui ci troviamo a vivere la nostra quotidianità, la scarsità di risorse personali, sociali e pratico-economiche, fa saltare tutte le dinamiche, anche le più collaudate.
Trovarsi a dover reinventare palinsesti di vita non è cosa facile. Mai.
Lo è ancor meno se bisogna farlo in seguito ad un trauma in fondo, almeno per la portata, inatteso.
Ognuno di noi sviluppa, in seguito ad uno shock, un Disturbo Post Traumatico da Stress (PTSD).
Tra i tanti sintomi possibili (incubi, comportamenti di evitamento, attacchi di panico, depressione…) ci sono anche sentimenti che compromettono l’aspetto relazionale del soggetto/attore. Le tante psico-somatizzazioni fisiche (palpitazioni, dispnea, tremori, vertigini, nausea, stanchezza, variazioni del desiderio sessuale) possono contribuire a rafforzare sentimenti di distacco e di estraneità nei confronti del proprio partner. L’incapacità di auto-percepirsi incide molto sulla convinzione di non essere più in grado di provare sentimenti d’amore.
Ovviamente le reazioni al trauma variano per intensità e durata da individuo a individuo; esse, inoltre , dipendono dall’entità del trauma stesso e dalle caratteristiche della personalità pre-traumatica.
In un momento di transizione emotiva come questa è consigliabile assumere un comportamento calmo, moderato, di accettazione.
I nervosismi, normali, non vanno soffocati. Ma vanno canalizzati in modo funzionale al superamento della crisi in atto. Che non è crisi della coppia, ma identitaria di tipo prevalentemente transitorio.
Una sana “distanza” può essere balsamica. Cercare di non riversare sull’altro il senso di frustrazione che in questo tempo naturalmente si impossessa di noi. Capire che ogni forma di salvezza passa per l’interiorità di ciascuno e non per le azioni di chi è altro da noi.
Le risposte alle domande, alle incertezze, alle paure, devono avere matrice personale.
Quando eravamo piccini, abbiamo imparato a camminare da soli quando hanno smesso di tenerci per mano.
Meglio. Quando abbiamo smesso noi, di cercare una mano”.
Tiziana Pasetti
tpasetti@gmail.com
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