
di Sarah Porfirio
Parlano di «profili di colpa tremendi» i Pm Fabio Picuti e Roberta D’Avolio nel corso della requisitoria del processo sul crollo del Convitto nazionale Cotugno, la struttura pubblica dove la notte del 6 aprile persero la vita 3 giovanissimi mentre altri 2 ragazzi hanno rischiato di morire.
Sono 4 gli anni chiesti per i due imputati di omicidio colposo, disastro colposo e lesioni gravi, Livio Bearzi, preside dell’istituto, e Vincenzo Mazzotta, dirigente della Provincia de L’Aquila.
«Un crollo che si annunciava almeno da 10 anni», ha affermato Picuti perché «documenti stessi della provincia, i testimoni portati dalla difesa, la relazione di Abruzzo Engineering, i convittori, tutti mettevano in risalto le condizioni di estrema vulnerabilità sismica del Convitto». «Mi sembra così evidente che il convitto fosse una struttura debole, vulnerabile, fatiscente dal punto di vista sismico che non mi sarei mai aspettato che la difesa avesse percorso questa linea difensiva con cui ha cercato di dimostrare che un tugurio fosse un albergo a 5 stelle», ha proseguito.
Una requisitoria dura quella di Picuti in cui ha ripetuto più volte come sia stata la difesa stessa ha produrre i documenti che hanno permesso di ricostruire l’inconsistenza dell’edificio: «Un test della difesa riferendosi al 1996 parla di “avvallamenti tali da poterci giocare a pallini”, della “struttura dell’edificio come l’ossatura di una persona anziana malata di osteoporosi”».
«Ma vogliamo ancora dubitare che il Convitto dal punto di vista strutturale fosse un tugurio?», incalza Picuti. «Il test della difesa Giannicandro Sfarra – uno degli educatori del Convitto, [i]nda[/i] – parla di infiltrazioni d’acqua che tamponavano con un secchiello, e parla di un distacco d’intonaco di qualche metro avvenuto 3 o 4 anni prima».
Plurime, dunque, le fonti di prova dell’inconsistenza dell’edificio per la Procura. Picuti ha insistito molto sul documento di valutazione del rischio sismico, corredato di innumerevoli segnalazioni, redatto da Luana Isicrate la quale nel corso dell’istruttoria affermò che nel 2008 preavvertì la Provincia delle condizioni di fatiscenza strutturali del Convitto nazionale. «Il 35% dello stabile presentava fessurazioni, dato ricavato dalle perizie effettuate da Abruzzo engineering. Negli anni si è prodotto un effetto ad elastico nelle murature causato dalle infiltrazioni che hanno indebolito la struttura, infiltrazioni d’acqua meteorica come sottolineato più volte dallo studio di Abruzzo engineering del 2005 che ha profetizzato il crollo esattamente dove si è verificato. Questo è un processo dove l’evidenza è stata presa a calci dalla difesa».
«Il crollo del convitto era un crollo annunciato dove hanno perso la vita 3 studenti. La muratura era fragile, i solai erano lignei e fradici, la struttura aveva gravissime carenze di tipologia costruttiva, con materiali scadenti e c’era l’omessa manutenzione. Gli imputati sapevano le condizioni del Convitto. Cosa poteva fare Mazzotta? Visto che aveva preso servizio 3 anni prima avrebbe dovuto semplicemente segnalare all’organo politico di riferimento che il Convitto era insicuro, inidoneo rispetto alla destinazione d’uso perché studenti e lavoratori erano esposti ad un rischio concreto e attuale. Non gli si chiedono i miracoli né lo si individua come anello debole: gli si dice che in qualità di dirigente non ha usato il buon senso; che di fronte ad una situazione fatiscente acclarata non ha segnalato all’organo di riferimento. Se solo avesse fatto questa segnalazione sarebbe stato esente di responsabilità».
«Se è vero che gli interventi competono alla provincia – ha incalzato la D’Avolio –, è vero che il dirigente scolastico deve adottare misure più idonee e avrebbe dovuto evacuare l’edificio. La condotta di Bearzi è stata gravemente colposa: aveva la conoscenza dello stabile, aveva la possibilità di adottare un diverso comportamento in seguito a sequenza sismica, diffidando la provincia a continuare a stare in quell’edificio e poi, quella notte, avrebbe potuto evacuare l’edificio. Lui aveva un contratto sociale con i convittori, era il Dirigente scolastico».
«Il 30 marzo, dopo la scossa del primo pomeriggio, – prosegue il Pm D’Avolio – furono prese decisioni completamente diverse eppure la situazione era simile: uscirono tutti i ragazzi che furono radunati a piazza Palazzo, furono avvertiti tutti i genitori per chiedere loro cosa volessero fare. Fu adottato, dunque, il piano di emergenza. Se Bearzi avesse adottato cautele e obblighi a cui era tenuto, morti e lesioni non si sarebbero verificati in quell’occasione. I 3 ragazzi sono morti nella camera dove lui voleva che rientrassero».
Il 21 dicembre in aula, sarà la volta delle parti civili e della difesa. Tra 5 mesi, dunque, si chiuderà il processo.