
di Daniele Bellasio*
Caro Capoluogo.it,
sono stato all’Aquila con colpevole ritardo, non soltanto rispetto al dramma del sisma e alle polemiche o alle speranze della ricostruzione, ma in ritardo soprattutto rispetto a quella che dovrebbe essere la normale tabella di viaggio di un normale italiano.
L’Aquila è una bella città in un bel paesaggio e con della bella gente: perché non c’ero mai stato prima? Perché ci sono voluti un terremoto bestiale e atroce, oltre a una grande empatia, per farmi arrivare qui? Perché l’indolenza del nostro non viaggiare in profondità, qui da noi, assomiglia alla superficialità della nostra non economia della cultura.
Su questo tema il Sole 24 Ore, il giornale per il quale lavoro, mesi fa ha lanciato una campagna con un Manifesto per la cultura, per risvegliare l’attenzione di tutti sul nostro tesoro, che poi è il nostro paese, dai pittori ai filosofi, passando per il vino Pecorino e il torrone, al trotto di una passeggiata su monti che sono screpolati e un po’ lunari in cima, ma rigogliosi e folti alle radici. Come noi italiani oggi.
Sono arrivato in ritardo all’Aquila e non sono riuscito a fare fotografie. Non per rispetto, che pure è dovuto, ma per vergogna.
Mi sarei vergognato a immaginarmi scattare istantanee di qualcosa che per gli abitanti dell’Aquila è il simbolo di un dolore duraturo. Non ce l’ho fatta. Meglio ricordare, tenere il telefonino in tasca assieme al quaderno, meglio ascoltare i racconti, i vostri racconti. E poi c’era il pudore, il pudore di fare domande. Quanta tristezza e ancora una volta quanta vergogna nel fare domande.
Vedere il nome della propria città e la propria carta d’identità associati a una tragedia, con lo sguardo – sempre lo stesso – di chi ti sta davanti e appena sente la parola “L’Aquila” pensa “terremoto” e chiede com’è andata. E voi costretti a essere cortesi, a rivivere l’invivibile. Dev’essere dura, quasi insopportabile.
Le parole che più mi hanno colpito sono due. La prima è “delocalizzazione”. Di solito è un termine del racconto dell’economia, stavolta è una fitta al cuore.
Qui all’Aquila – spiegate – è stata delocalizzata la vita, la vita di tutti. Immaginiamo, noi, noi che abitiamo altrove, che tutto – i nostri ricordi, il nostro futuro, le nostre commissioni quotidiane, lo scuolabus – tutto sia spostato d’imperio, come per uno scherzo fatto da ragazzi: entri nella tua casa e trovi tutto spostato, rientri nella tua vita e trovi tutto scombussolato. Questo soqquadro dell’esistenza lo raccontate e si vede. Per andare in qualunque posto si deve girare attorno a qualcosa e questo qualcosa è la seconda parola che mi è rimasta impressa: “buco nero”.
Il centro dell’Aquila – dite – “è un buco nero, noi per vivere ci giriamo attorno”. Come una danza macabra attorno al peggior ricordo, al fuoco della distruzione di vite e di case. Vedere quei grossi vestiti d’acciaio tenere assieme pezzi di storie passate è come immaginare di non voler cedere alla rassegnazione che insomma tutto è crollato al centro, si moltiplicano le cittadelle fuori, ma molti negozi sono lì solo temporaneamente, intanto la città si svuota inesorabilmente. Perché “provvisorio” è il concetto esattamente opposto a “casa”, a “io abito qui” o “io lavoro qui”. La burocratica definizione degli edifici – salvabili, non salvabili, rivivibili ma chissà quando – non cancella la malinconica affermazione: “Chissà, magari tra dieci, quindici anni…”, oppure la più fortunata constatazione: “Io sono stato fortunato, sono rientrato in casa, ma mio padre…”.
Mi sono spesso chiesto, girando lì da voi, che cosa sia meglio? Che cosa vorrei – se io fossi aquilano – che accadesse d’ora in poi. Non ho trovato una risposta, ma ho vissuto forte una sensazione: da ignorante di quel che avete vissuto, vorrei che tutto quel che può tornasse esattamente come prima. Anche per rispetto alle vittime, a chi non può tornare. Certo, è un sogno, ma agli incubi si reagisce con i sogni. Vorrei che si potesse rispondere alla natura brigante con un atteggiamento da brigante e mezzo, come in un libro sul west di Cormac McCarthy, rimettere tutto a posto, precisamente come prima. Probabilmente è una sciocchezza, ma io ogni istante che ho passato lì questo ho provato.
Sono arrivato in ritardo e sono andato via troppo presto per farmi un’idea compiuta. Per questa ragione ho pensato che fosse meglio scrivere soltanto una lettera per chiedere scusa del ritardo. Mi restano addosso però briciole di ragionamenti e sprazzi di visioni. Mi pare di capire che la prontezza della risposta adeguata iniziale, soprattutto della Protezione civile, insomma la capacità delle istituzioni di reagire subito nell’emergenza, vi abbia dato dapprincipio speranza. Forse adesso però soffrite per l’incertezza di progetto di città che non c’è e per una carenza di visione per il futuro nelle classi dirigenti che a più livelli governano questo paese nelle sue realtà locali. Vorreste capire se il centro tornerà centro e quando. Vorreste sperare che il provvisorio che funziona diventi il nuovo corredo di tutto ciò che c’era prima ed è stato rimesso a posto esattamente come prima; mentre il provvisorio che non funziona dev’essere superato quanto prima. Non ho raccontato quel che ho visto perché non avrei trovato le parole. Bisogna venirci e basta. Per questo ho solo raccolto sensazioni.
Perché chi non è mai stato all’Aquila non è mai stato all’Aquila e ha fatto male. Chi ci è andato in ritardo e per troppo poco spero possa essere perdonato e presto riaccolto. Grazie.
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