
di [i]Giancarlo De Amicis[/i]
Veramente illuminanti e degne di nota le recenti riflessioni del professor Cavalieri sulle contraddizioni nelle quali ripetutamente cade la governance aquilana: “…Limitandoci al solo centro storico, abbiamo […] i due casi concettualmente contrastanti della ex-scuola De Amicis e dell’auditorium di Renzo Piano. Nel primo caso si è imboccata la strada del “dov’era-com’era”, appellandosi ai valori identitari dell’edificio e rinunciando ad altre soluzioni architettoniche più radicali e meno costose che avrebbero riqualificato l’intera area di San Bernardino. Nel secondo caso, invece, non si è esitato a stravolgere massicciamente un’area di valenza altrettanto identitaria come il parco del Castello, collocandovi un ingombrante e costoso edificio di stile contemporaneo. Quale la logica dominante, allora, dal momento che le due scelte sembrano guidate da una confusa schizofrenia progettuale?”
Proviamo a individuarne una, partendo da alcune brevi considerazioni necessarie a circoscrivere l’argomento. Da un triennio assistiamo a discussioni senza costrutto. Fingendo di aderire alle richieste della società civile – mirate alla partecipazione, all’avvio di una nuova stagione di pianificazione urbana che, conferendo nuovo valore ai luoghi, sia capace di accrescere occasioni e opportunità anche nei riguardi di chi non ha diritto al voto – le istituzioni, di fatto continuano ad operare nella più completa autonomia, ignorando metodicamente il parere dei cittadini. Quali possibilità hanno allora gli aquilani che sono al di fuori delle strutture del potere per agire in qualche modo sul miglioramento del modello sociale di sviluppo della loro città? Possono, in definitiva, cambiare qualcosa? Sono le domande che Vaclav Havel, il primo presidente della repubblica Ceca, già nel lontano 1978 si poneva, iniziando il suo saggio “Il potere dei senza potere”.
L’autore metteva in guardia i suoi lettori da una nuova forma di organizzazione del potere, definito come sistema “post-totalitario” che, pur essendo diverso da quello della dittatura classica, non era meno pericoloso e infido. Infatti, come Havel osserva acutamente, nonostante le intenzioni della vita si esprimano in modo variegato, libero, secondo una pluralità di forme (una pluralità che fa rima con bio-diversità), “il sistema post-totalitario esige e permette solo una grigia uniformità, il più rigido monolitismo”. A l’Aquila, l’ideologia della governance post-sisma sembra voler sanare questa frattura fra le intenzioni della vita e quelle del sistema: assegnandosi il compito di tradurre le intenzioni del sistema in quelle che servono la vita degli aquilani. Questa ideologia ha costruito un mondo dell’apparenza da cui i bisogni autentici della civis locale sono assenti, perché inascoltati: essa prende in considerazione i bisogni del cittadino solo perché contribuiscono alla realizzazione delle intenzioni del sistema.
Tuttavia c’è qualcosa che forse sfugge a questa governance: è che i cittadini aquilani non sono soltanto produttori di beni e di profitti, o consumatori. Sono anche – e questa potrebbe essere la loro qualità più autentica – creature che desiderano forme svariate di coesistenza e di cooperazione, che vorrebbero essere apprezzate per ciò che danno al loro ambiente, partecipando attivamente e creativamente al progetto di un nuovo modello sociale di sviluppo e a una nuova idea di città. Purtroppo chi avversa la società civile sa come an-estetizzare ogni sua azione.