
di Ariale
Nevischia ed i tergicristalli lasciano rumorosamente sul vetro una scia sporca… mi pento di averli azionati. Sto per svoltare a destra e metto la freccia un po’ tardi. Quello dietro mi supera strombazzando.
Mentre lo guardo con la faccia da orsacchiotta, alzando disarmata le spalle, mi presenta le sue tonsille inferocite…
Lascio perdere… non voglio peggiorare una giornata nata male, cresciuta peggio, ma che per fortuna sta finendo.
La prima rissa è puntuale ormai: ore 7.50, esco di casa, imbocco la strada stretta, respiro, mi dò vigore, vado, supero il semaforo, placco le altre auto, entro nel budello a doppio senso, in realtà entra UNA SOLA macchina alla volta per cui “o passo io o passi tu”, bacino di centinaia di abitanti che vanno e vengono alla stessa ora: vince il più cattivo, chi ringhia di più, chi rischia di morire prima, insomma.
Ma è mai possibile cari amministratori?
Ma non c’era un’alternativa più civile?
Imbocco viale De Gasperi.
Ai semafori hanno sostituito una serie di rotatorie. Ancora non mi ci abituo… continuo a dare incredibilmente la precedenza a destra… creo rallentamenti … allora mi smucchio, entro tutta sparata cercando il semaforo che non c’è più, mi metto svelta svelta il casco, calo la maschera sugli occhi, mi allaccio la cintura e vaiiiiiiiiiiii come un proiettile entro nel girone.
A metà giro incomincia il rodeo: sono inclinata su due ruote, come Valentino Rossi, mentre la macchina imbizzarrita stride facendo IIIIIIIIIIIIIhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhh.
Una forza centrifuga mi prende e mi fa girare vorticosamente, non riesco più ad uscire. Al terzo giro tiro il freno a mano, faccio un testa coda, e finalmente becco la via giusta.
Ogni mattina impallidisco mentre volo e atterro fragorosamente, ma nessuno ci fa più caso, mi sto abituando a ‘sta ficata.
Ad un certo punto lo vedo…
L’andatura è incerta, barcollante, strascicata, senza più il coraggio di una volta, l’ombrello aperto sembra un’ancora cui si aggrappa ed il guinzaglio del cane è lento come se fosse l’animale a guidare lui. Sembra proprio tanto ma tanto vecchio. Sento coltelli affilati aprirmi lo stomaco e salire sopra, a vivo. Ruotano, girano, mi trafiggono e poi salgono al cervello che comincia a battere.
E’ come una foto in bianco e nero, mi parla di altri tempi con uno struggimento feroce.
Lo guardo: che faccio? mi fermo? non mi fermo? ci parlo? tiro avanti? faccio finta di niente…?
. . . Metto le frecce, accosto, scendo alzando il cappuccio e mi dirigo verso l’uomo. Fa freddo.
“Professore? Professor Ianni? Ha bisogno di qualcosa? Le serve un passaggio?”
Quando mi guarda mi sento gelare . . . gli occhi sono annacquati, lo sguardo è un buco, hanno perso l’alterigia sicura del bell’uomo che era mentre la mia memoria fa a cazzotti con il ricordo dello sguardo acuto che mi guardava, vivo e vivace, in altri tempi e luoghi. Stringe gli occhi per focalizzarmi ma sembra che le palpebre siano lente come saracinesche. La schiena è curva e con un raschio di voce roca e impastata, non ha più il suono tuonante che ascoltavo nelle lunghe mattinate della mia adolescenza, mi chiede: “Si, mi farebbe piacere avere un passaggio ma anche sapere chi sei”.
“Adriana, Adriana Mantini, Sez. A, scuola media Carducci” dico quasi facendo lo spelling, sicura di non essere ricordata.
“Mantini? Adriana? Mmmhhhh, la compagna di Valeria Concia? terzo banco? fila di mezzo? Si, mi ricordo” risponde mentre io rimango a bocca aperta per la lucidità non sospetta che ha mantenuto “terribili, eravate terribili, le peggiori, nonostante esigessi il rigore.
Una volta avete cosparso il pavimento dell’aula con lo zucchero …; un’altra avete liberato in aula due piccioni . . . e quelli, mentre cercavano una via d’uscita, terrorizzati sbattevano alla finestra, spiumavano, gettavano escrementi e tutti urlavano furiosi e si riparavano da quella pioggia scandalosa . . . sotto i banchi, coprendosi la testa con i libri o con le mani . . .terribile. . . e terribili . . .
Siete ancora amiche tu e Valeria? Vi siete calmate?”
Più che calmate la vita ci ha domato, penso amaramente, e mi sorprendo a rivedere la ragazzetta frivola che ero con distanza, come se non mi appartenessero quei ricordi, quel sangue che scorreva nelle vene irriverente verso tutto . . .
Ma veramente c’è stato un tempo in cui ero convinta di poter toccare le stelle?
Possibile che mi sia allontanata così tanto da quello che ero?
Ho la sensazione che il passato viva in un’altra dimensione, morto . . . e invece sopisce e aleggia sopra noi e quando chiama ti sbalanza indietro di 30 anni per ritrovare vividamente quelle emozioni, gli odori, i colori che pensavamo sepolti . . . anzi mai esistiti . . . ed è una sberla che ti lascia intontita perché . . . non ti riconosci . . . ed hai la consapevoleza di quanti minuti, giornate, stagioni sono andati . . . persi nella memoria, per sempre.
Un tempo infinito che sembra un momento.
Faccio salire il Prof, metto Jerri il cane dietro, con cautela parto e mi dirigo verso l’indirizzo che mi sta dando: progetto C.A.S.E. – Bazzano.
Come una spugna assorbo la sua dolorosa e sconcertante vecchiaia. Sono soverchiata dalle emozioni e mi commuovo, perciò butto dietro la testa e combatto la gravità che vorrebbe tirare fuori fiotti di lacrime . . . mi trattengo e lotto con la mia memoria che mi butta in faccia immagini giovanili di quest’uomo: sono trailer di un film che mi appartengono. Lui circondato da donne innamorate; lui che amava molto noi ragazzi, soprattutto i più irrequieti, le sue meravigliose lezioni sull’Iliade. La prima coniugazione latina: rosa – rosae. La storia: Garibaldi, Lorenzo il Magnifico, Augusto, la lupa, i gemelli, l’inizio della nostra civiltà, le visite al centro storico.
Come è potuto succedere che la sua dignità fosse rubata da un corpo ora devastato? Perché questo oltraggio cui né la cultura né la volontà possono far niente?
Scende dalla macchina, lo aiuto, nessuno lo guarda più . . . Lo sguardo scivola sugli anziani, anime sottili, invisibili, in corpi sfaldati, ombre. Ha un odore strano, stantio, di vecchiaia.
“Certo Professore va bene . . . non si preoccupi” ricordo di avergli detto nei flash che fanno un’altra lancinante incursione: è autunno, tira molto vento, ho 12 anni.
Indosso una gonna a scacchi che svolazza ed una maglietta rossa sotto un cardigan beige che aveva fatto mia madre.
Sono magra come uno stecco. Guardo la ragazzina che il Prof. mi indica, Valeria Concia, carina da morire ma soprattutto pettorata, l’unica con reggiseno nel deserto piallato della nostra classe. Ha i denti un po’ larghi, questo me la rende irresistibile, e la erre moscia che ti fa morire quando dice arretrare. Devo starle accanto, compagna di banco, per calmarla perché è irrequieta e non studia, moderarla in questa smania che ha di fumare, truccarsi, farsi notare, colorare tutto con il suo passaggio e far girare il mondo intorno a lei. L’ho promesso al Prof, voglio bene al Prof, me lo ha chiesto calmo calmo.
Avvicino Valeria… mi guarda male, poi bene, poi esplode in un sorriso mentre mi sputa in faccia il fumo. Senza dirmi niente prende il rossetto e me lo mette con sfrontatezza, la matita, mi trucca gli occhi, infine il fondotinta. Sono un pupazzo completamente in balia della sua magia, non dico niente, mi faccio fare tutto . . . Dopo due minuti sono lì ad accendere, sbigottita, la mia prima sigaretta. Lei mi prende la mano e dice “Andiamo sotto i portici, dai, che sei proprio carina così” mentre il vento gioca con i nostri corpi leggeri e ci spinge nell’amicizia più vera e profonda della nostra vita.
Caro Prof. Ianni altro che io aggiustare lei!
Valeria ed io ci siamo intrecciate in questo modo, casualmente, mentre il Prof. ci guardava clemente e correggeva il tiro con noi: io che diminuivo il rendimento scolastico e Valeria che lo aumentava in una giusta compensazione: abiti prima diversi poi sempre più simili, parole insicure le mie, strafottenti le sue all’inizio, per convergere poi nelle stesse voglie, gli stessi gusti, lo stesso linguaggio. Io che calmavo lei, lei che vivacizzava me . . . per ore, giorni, mesi, anni, tutta una vita, compagne, sorelle.
E poi l’ultima volta che abbiamo parlato con lui, dopo gli esami di terza media. Ci ha chiamato, severo e autoritario. Aspettavamo timorose la predica. Ci ha fatto sedere in prima fila mentre scarabocchiava la lavagna.
Era di schiena . . . stava prendendo tempo . . . si è rivoltato e ci ha detto: “non fate scorrervi la vita accanto, immergetevi nel fiume che vi trascinerà: c’è un’intera vita dietro ogni cosa. Mi avete messo molto alla prova ma . . .” e si gira nuovamente di spalle, il corpo rigido dalla tensione a nascondere la sua commozione e scrivere con la sua bella calligrafia e con mano incerta, tremante . . . “sono fiero di voi” . . .
C’è un’intera vita dietro ogni cosa ripeto bisbigliando . . . sono fiero di voi.
Riemergo da quel tempo incantato e stupendo, sicuro ed inconsapevole, come da un’apnea, senza fiato, a cercare aria, conforto.
Lo accompagno sopra. Il cane lo segue adorante e devoto, come nessun altro ormai.
Benedetti animali, ti ricordano l’armonia di un’unione infrangibile e ti coccolano incondizionatamente, con dolcezza. A volte l’uomo proprio non ce la fa, perché ama troppo, a guardare i cari in questa cancrena che li mangia da dentro . . . mentre l’ anima si assottiglia . . .
“Prof. ma lei come sta? Come vive?” gli domando per spezzare una tristezza che mi scuote. “Come sto? Un uomo quando invecchia è come un albero secco: gli altri fanno legna. Sono zona rossa . . . sai cos’è una zona rossa? E’ dove non puoi andare per pericolo di crolli e macerie, dove tutto è devastato, dove bisogna mettere sostegni e rinforzi. . . Nessuno vuole più entrare. Ecco mi sento così, la testa c’è ma il corpo non regge e arrogante detta i ritmi delle mie giornate sbranandole. Non posso neanche leggere. Un ciclone è entrato in me e ha fatto brandelli di tutto . . . Mi faccio compagnia con i ricordi.
Ma tu mi raccomando salutami Valeria”.
Professore le voglio un gran bene, è proprio un grande, penso mentre me ne vado.
Nevica, ormai, e mi affretto a tornare a casa. Sono sfinita.
Apro la finestra: voglio respirare neve.
Affido ai fiocchi il mio saluto a Valeria nell’unica dimensione dove purtroppo ormai vive. Le racconto di questa giornata, dell’incontro con il nostro caro Prof, di quanto sia vecchio e di quanta malinconia mi abbia fatto. Le raccomando di abbracciarlo quando lo incontrerà, fra non molto credo, appena il tempo gli toglierà il tempo.
Vi Voglio bene, sussurro, mentre la notte perfora la mia dilagante nostalgia sperando, un giorno, che da qualche parte di questo infinito possa toccare di nuovo le stelle.
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