
di Tiziana Pasetti
Arriva una telefonata. Succede così.
Ti arriva una telefonata, un giorno.
“E’ guarita”, sussurra una voce.
“Vengo subito”, rispondi.
Quando guarisce una casa, qui all’Aquila, non so dire se quello che provi è una grande felicità oppure no.
Quando è guarita la mia, dopo quasi due anni di coma e cure intensive e trapianti, volevo prenderla a calci.
Quando l’ho vista tutta imbellettata, con i suoi nuovi colori e senza più un graffio, l’ho guardata in cagnesco e le ho chiesto chi vuoi fregare?
Sono belle queste pareti nuove, sì, ma guarda che sotto ci sono ancora quelle crepe e quei momenti di nulla, quelli che mi hai disegnato intorno quella notte, quelli che mi correvano dietro e sembravano l’elettrocardiogramma del mio cuore impazzito.
Ancora oggi mi è straniera, questa mia casa.
Ancora oggi capitano quegli inizi di notte, quelli che ti riportano indietro, quella domenica, rivedo tutto.
Rivedo la tavola lasciata apparecchiata, ci penso domani.
Vedo quel computer, era in una stanza, la mia, che oggi non c’è più. Vedo quel computer e ricordo l’ultima mail scritta, l’ultima ricevuta.
Poi il letto. Quel sonno che non arrivava. Ricordo certe ultime parole.
Ricordo quel rumore, da lontano. Poi ricordo che siamo saltati in aria e poi una nave preda di un mare folle.
Questa casa non è più mia. Non è più mia lei e non sono sua io.
Non basta guarire, per tornare ad essere quello che eravamo.
Siamo pezzi rincollati e dipinti con colori sgargianti, per distogliere l’attenzione da un lavoro fatto come si poteva, con quello che restava.
Quando vado a trovare una casa che è guarita mi disegno un sorriso di circostanza con le dita e lo blocco con i denti, dentro.
Stringo.
Il sapore del sangue mi calma.
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