Aspettando giustizia. Cronaca dell’incontro: ‘Non gliela daremo vinta’

Non è stata la riunione di «un comitato delle vittime», ma «una serata civile e di testimonianza, dedicata al nostro caro amico Antonio Simone che stasera non può essere qui tra noi, per chiedere non l’impunità, ma una vera giustizia degna di uno Stato civile». Così lo scrittore e giornalista Lodovico Festa ha introdotto “[i]Aspettando giustizia[/i]”, l’incontro promosso da Tempi che si è svolto ieri sera a Milano davanti a una platea di 500 persone e alcune personalità politiche come Roberto Formigoni, presidente di Regione Lombardia, Maurizio Lupi, vicepresidente della Camera, e Bruno Dapei, a rappresentare il Consiglio provinciale di Milano che ha patrocinato l’incontro.
«IL GRANDE ERRORE DELLA MIA VITA». «Io ho fatto tanti errori nella mia vita» ha detto durante il suo intervento il generale Mario Mori, «ma quello più grande l’ho commesso quando un giorno i militari da me diretti hanno arrestato Totò Riina. E questo non mi è mai stato perdonato perché è dal 1994 che io sono sotto processo, mediatico e giudiziario». Non è un’ammissione di colpevolezza per un ruolo giocato in qualche ramo della trattativa Stato-Mafia, ma la fredda ironia di uno tra i migliori servitori dello Stato che da allora, come ha raccontato nei dettagli, ha già affrontato due processi e sta per essere sottoposto al terzo. «Scatenando l’ira dei miei avvocati ho rifiutato la prescrizione», racconta, «perché io non mi voglio difendere dal processo ma nel processo e come uomo delle istituzioni non voglio rifiutare questa giustizia, anche se a volte è malagiustizia».
«DOVE SONO LE PROVE SCHIACCIANTI?». Anche Ottaviano del Turco, sindacalista e politico (Pd), ex presidente della Regione Abruzzo, non chiede di meglio che difendersi nel processo, peccato che quello che lo vede accusato «duri da quattro anni e tre mesi e ancora non si veda neanche l’ombra della “montagna di prove schiaccianti” che i pm avevano annunciato alla stampa di avere contro di me. Rimandano di sei mesi in sei mesi il processo per trovare delle prove che non ci sono. E se tutto va bene, ma deve andare davvero molto bene, spero che si arriverà a una sentenza prima dell’estate dell’anno prossimo». Del Turco racconta dei suoi 28 giorni di carcerazione preventiva, di come la sua giunta «dal 2005 al 2008 sia riuscita a riequilibrare i conti della disastrata sanità abruzzese», dello svolgimento del suo abnorme processo, dove si riscontra solo un grande assente: «Le prove, appunto».
PRENDERLA CON IRONIA. I relatori, come anche il politico della Lega Nord Matteo Brigandì, raccontano le proprie disavventure giudiziarie, ma non in modo triste, bensì con ironia, così il pidiellino Renato Farina dice di «essere appena arrivato da una visita al carcere di Vicenza, da dove non mi volevano lasciare uscire. Io come deputato mi dedico alla visita delle carceri, per dire a chi sta dentro, spesso in custodia cautelare, visto che sono il 40 per cento della popolazione carceraria, che loro fanno parte del nostro mondo e questo, in parte, allevia la loro tortura».
LA LETTERA DI SIMONE. La parola è usata a proposito, «tortura». È lo stesso termine scelto per descrivere la custodia cautelare da Antonio Simone, detenuto da aprile a San Vittore in carcerazione preventiva, in una lunga lettera letta dal direttore di Tempi Luigi Amicone, che sul finale si è commosso tra gli applausi del pubblico. Ma il degno riassunto dell’incontr è l’espressione del generale Mori: «Io ho speranza che si possa aprire una nuova era»; perché come ha detto Del Turco «c’è un segnale di novità, si è aperta una discussione positiva e di grande rilievo politico nella magistratura»; perché «non bisogna dargliela vinta e non gliela daremo vinta». Almeno finché ci sono persone, come ha ricordato Festa, «disposte a combattere contro l’illegalità e la giustizia politicizzata per uno Stato di diritto». Fuori e dentro dal carcere.
[i]di Leone Grotti, da Tempi.it, 22 settembre 2012[/i]
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Sembra giustizia ma è gogna mediatica.
Carcerazione preventiva e giustizia politicizzata. Due argomenti che nella serata di venerdì, all’incontro “Aspettando giustizia“ organizzato da Tempi a Milano, hanno avuto profonda risonanza. Le testimonianze del generale Mori, di Renato Farina e di Ottaviano Del Turco sono rappresentative di una giustizia che si mischia con la stampa, diventando una raffigurazione inquietante della società italiana. Tempi.it ne parla con Maurizio Tortorella, vicedirettore di Panorama e autore di un bel libro, La gogna (Boroli editore).
Quando nascono i primi processi a mezzo stampa?
Tutto comincia con Tangentopoli. Anzi, ancora prima, quando nel 1989 una nuova modifica alla procedura penale cambia il procedimento tradizionale. Mentre prima le indagini erano portate avanti congiuntamente da due magistrati, il pubblico ministero e il giudice istruttore, che avanzavano congiuntamente, da quel momento il pm diventava l’unico titolare dell’azione penale. La polizia giudiziaria inizia a dipendere da lui. Per un tempo illimitato il pm decide su intercettazioni, perquisizioni e arresti, ecc. Nella sua azione diventa completamente libero. Ogni atto, poi, passa al vaglio del giudice preliminare, ma solo successivamente all’azione del pm. Non appena l’atto va a finire tra le mani dell’avvocato difensore dell’imputato e del giudice, diventa automaticamente pubblicabile. Spesso i pm hanno “amici” che lavorano in testate giornalistiche di cui condividono la visione politica. Questa stampa non aspetta la fine del processo, né tantomeno intervista la controparte, per gettare fango su imputati di cui non è ancora stabilita la colpevolezza.
Perché si è modificata la procedura penale?
Si intendeva migliorare le nostre procedure penali. Il nostro codice aveva caratteristiche arretrate, ben lontane da quelle europee, considerate più moderne. Ma la cura è stata peggiore della malattia che si voleva debellare. Questo meccanismo infernale funziona anche laddove l’avvocato dell’indagato rifiuti di ritirare l’interrogatorio. È il caso di Guido Bertolaso. Sono usciti sulla stampa dei virgolettati di un interrogatorio che non potevano che venire dall’accusa, perché la difesa ha rifiutato il ritiro dei documenti. A quanto pare, è necessario sentire soltanto l’accusa per redigere un articolo.
La “gogna” mediatica colpisce tutti indiscriminatamente o ha una certa predilezione verso un colore politico?
Il garantismo non è un’idea molto praticata in Italia. Un tempo, fino agli anni Settanta, era la sinistra a essere garantista, a fronte di una destra forcaiola che chiedeva più galera, pene pesanti e l’uso della custodia cautelare. Adesso, le parti si sono invertite. È la sinistra forcaiola a chiedere misure pesantissime, mentre il centrodestra ha un orientamento garantista.
Pubblicare stralci di documenti prima della sentenza segue la deontologia professionale?
Si dovrebbero ascoltare più voci e diversi punti di vista prima di toccare temi così delicati. Trovo mortificante che in troppi casi un pezzo si risolva aspettando che dalla procura arrivino delle carte. Non è dignitoso che un giornalista faccia “copia e incolla” dei documenti che la procura gli passa sottobanco. Se consideri che il pm di Palermo, dopo che Panorama ha pubblicato parte dell’intercettazione tra il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e l’ex ministro Nicola Mancino, ha smentito di aver passato lui stesso le carte, giustificandosi che Panorama non è un giornale “amico”, ti spaventi. Perché significa che ci sono media “amici” e media “nemici”. E quelli amici, inevitabilmente, sono dello stesso colore politico del magistrato in questione.
La carcerazione preventiva e le lungaggini della giustizia italiana aiutano “la gogna”?
Certo. Nello Rossi, procuratore aggiunta a Roma e appartenente a Magistratura democratica, ammette che oggi ha più impatto un arresto di una sentenza di primo grado. Perché? Sul piano emotivo, l’immediatezza di un arresto ha più effetto di una sentenza, che impiega anni prima di essere confermata o smentita. Nessuno più segue i processi – come quello di Ottaviano Del Turco – perché questi si svolgono sui giornali. Il vero processo è di carta.
Come nell’affaire Formigoni?
Sì. Fa parte dello stesso gioco.
[i]di Daniele Ciacci, da Tempi.it, 24 settembre 2012[/i]
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