
di Ariale
Lei è impalpabile, ma non la sua sofferenza, dura e pesante, talmente palpabile che sembra tu la possa prendere in mano. E’ bella ma non lo sa e il rimmel le cola sul viso come rigagnoli sporchi in un campo fangoso. Non so che dirle, non riesco più ad aiutarla, so solo che mi faccio carico del suo macigno, così siamo in due, ma non sono sicura che lei lo senta. Le dico “chiama Giulia andiamo a Teramo” e ci mettiamo in macchina in tre, mamma, figlia e amica della figlia.
Come usciamo dal traforo sembra di essere in un altro mondo, aeriforme. Ci sentiamo più liquide, lievi, da solidi che siamo, e questa fusione miracolosa avviene repentinamente. Vado a veder il Campus universitario e mi si allenta questa pressione che in modo inconsapevole mi tormenta sempre. Peccato, penso con rammarico, che da noi non ci sia, nonostante la nostra sbandierata tradizione universitaria. Guardiamo come marziani una realtà normale ma straordinaria. La gente qui è tranquilla ti parla, anche se non ti conosce, senza studiarti. E poi ci sono i negozi sul corso, il passeggio, il bar, l’edicola, tutto meravigliosamente al proprio posto. Ci sembra di essere a New York.
Quando cammino per il corso di Teramo sento il cuore di mia figlia alleggerirsi e con il suo il mio. E’ una sensazione fisica ben precisa: un velo si solleva dal cuore accartocciato e vola via: respiro senza tensioni come non mi capita più.
Sorridono con la bellezza dei loro 19 anni, sento il loro sangue fluire tranquillo: sono contente, sembrano spensierate.
Al ritorno avviene il processo inverso: dopo la galleria del Gran Sasso ci solidifichiamo nuovamente, perdiamo il sorriso, i muscoli si tendono. Il mio cuore si rattrappisce per il mio e il loro dolore. Vorrei spaccare questo muro, questa cappa, ma non ne ho la forza. Le accompagno ad un locale, ormai è sera, possono uscire, incontrarsi come di giorno non succede più.
Vado al supermercato, la nostra piazza ormai. Faccio finta di niente. Ogni mattina mi alzo facendo finta di niente cercando di convivere dignitosamente con una realtà troppo desolante.
”[i]Tu sei quello che vedi[/i]” diceva mia madre quando mi incitava a circondarmi di bellezza, per dialogare e rispettare la bellezza della mia città e raffinarmi nei miei modelli educativi e culturali.
“[i]Tu sei quello che vedi[/i]” ripeto disperandomi perché le mie figlie vedono solo abbandono e brutture, e si stanno abituando a questo.
Per domare la tristezza ogni giorno sono andata a Madonna Fore, poi più su alla Crocetta. Cercavo di sfiancarmi. Ho incontrato persone che non vedevo da anni, mi fermavo a parlare con loro mentre i nostri passi si avvitavano ai sentieri silenziosi che penetravano nel bosco bruciato, fino ad arrivare su a quella terrazza panoramica dove puoi vedere L’Aquila dormiente in tutta la sua estensione.
Allora scendevo e prima di tornare a casa andavo a Collemaggio, come una pazza, ad abbracciare le croci rosate della facciata cercando di rincuorarmi. Ma non mi è bastato: ho bisogno almeno di un cardo e decumano. Almeno di quelli. Il dolore mi è entrato nelle ossa, in modo subdolo, e l’attaccamento alla terra da valore è mutato in disvalore perché il rimanere qui mi sta uccidendo e le figlie potranno elaborare solo storie minori. Ho provato rabbia perché non posso fidarmi delle politiche, di questa maledetta congiuntura economica, dar credito a chi quelle politiche dovrebbe attuarle, troppo scompaginato il tessuto governativo e municipale. Si vola basso fra incapacità e grovigli. Ci hanno rubato una speranza e ci siamo chiusi in un cerchio blindato, senza riuscire ad alimentare la rete solidale delle amicizie perché la solitudine saccheggia i ritmi delle giornate, anche se facciamo finta di niente. E allora penso che ce l’ho con tutti, con me stessa che soccombo, con noi aquilani che non siamo una comunità né unita né facile, con i politici, gli intellettuali, gli imprenditori; che potevamo resettare tutto e iniziare un’altra storia ed invece non abbiamo avuto spirito di corpo e allora me ne andrò, ma non vorrei, per questa ulteriore occasione mancata perché non ce la faccio a farmi carico di tutto, anche se in un’altra città mi sentirò esule e non saluterò nessuno e nessuno mi conoscerà, leggera come un fantasma; e forse un giorno dimenticherò la mia città e la mia storia e potrò riniziare, da qualche parte potrò riniziare, anche se sono una borderline, in una linea di confine fra follia e ragione, fra volere e non potere, fra passione e disillusione, leggerezza e nostalgia, palpabile e impalpabile.
Forse.
Amaramente.
Amarcord.
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