
«Non ho mai avuto bisogno di imporre niente agli scienziati che collaboravano con noi. Tutte persone serie in grado di prestare la loro opera, anche sul campo, insieme ai soccorritori, senza perdere alcuna dignità e senza prostituirsi ad esigenze di ‘tranquillità’ del governo».
Lo scrive sul suo [url”sito”]http://www.guidobertolaso.net./[/url] l’ex numero uno della Protezione civile, Guido Bertolaso, riferendosi ai componenti della Commissione grandi rischi, [url”condannati per il terremoto dell’Aquila del 6 aprile 2009″]http://ilcapoluogo.globalist.it/Detail_News_Display?ID=38431&typeb=0&Grandi-rischi-il-giorno-della-sentenza[/url] ed alle polemiche sorte sul rapporto che aveva con gli stessi componenti.
«Ma di cosa parlano certi commentatori? Non certo di fatti, che non conoscono – dice fra l’altro Bertolaso – ma di sicuro di pregiudizi, di stereotipi, di luoghi diventati comuni dopo alcuni anni di bombardamento e criminalizzazione mediatica di tutto il mio operato a capo della protezione civile italiana».
«A prescindere dai rapporti di stima che mi legano ai condannati, con molti dei quali ho rapporti di profonda amicizia, personalmente – afferma ancora – continuo a ringraziarli per il prezioso lavoro che hanno svolto, pagandone conseguenze queste sì imprevedibili, dovute ad un nuovo ed inatteso ‘rischio antropico’».
Sull’[url”intercettazione telefonica con il sismologo Enzo Boschi del 9 aprile”]http://ilcapoluogo.globalist.it/Detail_News_Display?ID=38854&typeb=0&25-10-2012–Consiglio-Comunale-in-aula-la-voce-di-Bertolaso[/url], Bertolaso dice: «a cosa serve tirarla fuori? A dimostrare come fossi io a dettare ciò che la commissione doveva dire, come si evince dal ‘tono’ della mia voce. Se questo era vero il 9 aprile, a terremoto avvenuto, lo era anche prima del terremoto, ovvio. Quindi… Peccato che vero non lo sia mai stato, né prima né dopo il sisma dell’Aquila».
«Dopo, sono capaci tutti di dire cosa andava fatto, come andava fatto, e anche quale ‘tono’ andava usato nelle telefonate. Ma scambiare il dopo col prima, usare il senno di poi per valutare i fatti non è, semplicemente, corretto, o più esattamente è sbagliato. Questa volta – aggiunge Bertolaso – avrei tramato con Boschi per nascondere agli aquilani la verità. Su cosa? Sulla possibilità che altre scosse forti colpissero l’Aquila. Ma guarda che congiura!».
«Il mio compito, il mio lavoro all’Aquila – continua – è stato quello di gestire un’emergenza complessa ed inedita nella nostra storia, visto che era la prima volta che un capoluogo di regione era distrutto ed era stata azzerata l’operatività delle istituzioni e degli enti locali coinvolti; di soccorrere le vittime, di monitorare il territorio e valutare in diretta le soglie di rischio createsi dopo il sisma del 6 aprile».
LA NOTA COMPLETA DI GUIDO BERTOLASO
Oggi sul Corriere della Sera Gian Arturo Ferrari, già docente di Storia della scienza e responsabile della Divisione Libro della Mondadori, Presidente oggi del Centro per il libro e la promozione della lettura della Presidenza del Consiglio dei Ministri, pubblica un suo contributo sul processo alla Commissione Grandi Rischi concluso all’Aquila con la condanna degli imputati.
Qual è la tesi di questo illustre personaggio, che con la scienza ha confidenza e familiarità tanto da averne insegnato la storia a livello universitario? Che “risulta di palmare evidenza” che “quell’elevato consesso di accademici ed alti funzionari” era di fatto “una accolita di incompetenti, provvisti però di una robusta dose di arroganza”.
Prendo atto di aver avuto piena fiducia per anni in una accolita di incompetenti. A prescindere dai rapporti di stima che mi legano ai condannati, con molti dei quali ho rapporti di profonda amicizia, personalmente continuo a ringraziarli per il prezioso lavoro che hanno svolto, pagandone conseguenze queste sì imprevedibili, dovute ad un nuovo ed inatteso “rischio antropico”.
Del fatto che un insigne personaggio si prenda la briga di pronunciamenti definitivi su una questione che certo non è stata oggetto di seri studi da parte sua, invece, non mi stupisco.
Sulla vicenda aquilana continuano a susseguirsi prese di posizione, rivelazioni, giudizi che hanno a che fare con quasi tutto tranne che con la semplice verità dei fatti.
L’Onorevole Di Pietro, ieri, ha ritenuto suo dovere spiegare che la condanna dei componenti della Commissione Grandi Rischi si motiva con la svendita, da parte dei condannati, della dignità della scienza avvenuta, per mio tramite, in favore della tranquillità e del quieto vivere del Governo (?).
Ma di cosa parlano, questi illustri contemporanei? Di chi parlano? Non certo di fatti, che non conoscono, ma di sicuro di pregiudizi, di stereotipi, di luoghi diventati comuni dopo alcuni anni di bombardamento e criminalizzazione mediatica di tutto il mio operato a capo della Protezione Civile italiana.
Pochi minuti fa un amico ha visto in TV una trasmissione di cui era ospite il Professor Boschi. Mi è stato riferito non tanto ciò che ha detto Boschi, che a giudizio di chi ha visto la trasmissione è stato corretto e preciso, ma soprattutto il clima che nello studio si respirava, un clima ostile, banale dire pregiudizialmente ostile. Qualcuno ha fatto notare al Professor Boschi, dopo aver fatto ascoltare la registrazione della mia telefonata con lui del 9 aprile, “emersa” ora nella disponibilità deLa Repubblicae pubblicata da quel quotidiano, che il mio “tono di voce” con lui era veramente irriguardoso, imperioso, di uno che da ordini e non è certo alla ricerca di consigli e suggerimenti scientifici.
Boschi ha risposto dicendo che in quei giorni “mi trovavo in una situazione difficilissima” – lo ringrazio per averlo ricordato – e che non era certo il momento di badare al mio tono di voce, quanto piuttosto di continuare nella opera di collaborazione che durava da anni trala Commissionee il Dipartimento da me diretto.
Il clima in studio di cui mi è stato riferito, e il tenore della domanda, rimandano dritti alla solerte attività editoriale deLa Repubblica, che continua con la sua strategia di pubblicare periodicamente documentazione “emersa”, quasi ritrovata per caso, che in realtà è probabilmente, in possesso da tempo di quel quotidiano, che, con uguale probabilità, parrebbe disporre di intercettazioni telefoniche a mio carico, disposte dalla magistratura.
Questa volta l’intercettazione pubblicata riguarda una mia telefonata al professor Boschi del 9 aprile, tre giorni dopo il terremoto. A cosa serve tirarla fuori? A dimostrare come fossi io a dettare ciò chela Commissione GrandiRischi doveva dire, come si evince dal “tono” della mia voce. Se questo era vero il 9 aprile, a terremoto avvenuto, lo era anche prima del terremoto, ovvio. Quindi….
Peccato che vero non lo sia mai stato, né prima né dopo il sisma dell’Aquila.
Ma a chi interessa? A chi può importare di capire davvero sia quali erano i rapporti tra scienziati e Dipartimento, sia il contesto e la successione dei fatti, ammettendo che esiste una bella differenza tra ciò che si può dire dopo qualsiasi evento e ciò che si sa e si dice prima o mentre esso è in corso. Dopo, sono capaci tutti di dire cosa andava fatto, come andava fatto, e anche quale “tono” andava usato nelle telefonate.
Ma scambiare il dopo col prima, usare il senno di poi per valutare i fatti non è, semplicemente, corretto, o più esattamente è sbagliato, perché non porta a nessuna verità diversa da quella di cui, a priori, ci si è convinti.
Questa volta avrei tramato con Boschi per nascondere agli aquilani la verità. Su cosa? Sulla possibilità che altre scosse forti colpissero L’Aquila. Ma guarda! Ma pensa te che congiura! Cosa avrei nascosto? Basta sfogliare la rassegna stampa di quei giorni successivi al 6 aprile per trovare riferimenti continui, anche suLa Repubblica, al persistere del rischio di altre scosse.
E’ certo che in una zona sismica la impossibilità di previsione su data, luogo e ora di un sisma vale per la prima scossa e per le scosse successive. E’ molto probabile che una scossa anche forte non sia isolata. La storia ci insegna che i terremoti hanno comportamenti imprevedibili. Ad Assisi fu una seconda scossa a fare vittime nella Basilica di San Francesco facendo crollare la vela della volta. In Friuli, a distanza di mesi, fu necessario ricominciare da capo il lavoro di ritorno alla normalità perché un’altra scossa di pari intensità colpì la stessa zona. In Emilia, di recente, è stata la seconda scossa a fare vittime a seguito dei crolli dei capannoni, non la prima.
Il mio compito, il mio lavoro all’Aquila, è stato quello di gestire una emergenza complessa ed inedita nella nostra storia, visto che era la prima volta che un capoluogo di regione era distrutto ed era azzerata – azzerata, niente di meno – l’operatività delle Istituzioni e degli Enti locali coinvolti; di soccorrere le vittime, di monitorare il territorio e valutare in diretta le soglie di rischio createsi dopo il sisma del 6 aprile ed agire di conseguenza; informare direttamente la popolazione su cosa stava accadendo e su cosa poteva succedere.
L’ho fatto stando all’Aquila lavorando giorno e notte, sentendo di persona tutte le scosse seguite a quella del 6 aprile, insieme agli aquilani ormai messi in sicurezza e con le migliaia di soccorritori giunti da ogni parte d’Italia per aiutarli, ben consapevoli dei rischi che correvano per questa loro generosa indispensabile attività, con i quali ogni giorno abbiamo condiviso ogni informazioneutile al nostro lavoro e alla sicurezza di tutti.
Se Boschi ha un torto, è stato quello di aver capito e condiviso il lavoro che stavo, stavamo facendo. Nella situazione concreta del 9 aprile – tre giorni dopo la scossa del 6 – nulla c’era da aggiungere a quanto già sapevamo e stavamo facendo e dicendo con chiarezza agli aquilani e ai soccorritori.
Questo è confermabile, anche oggi col senno di poi, da chiunque fosse all’Aquila in quei giorni a qualsiasi titolo.
Non ho mai avuto bisogno di imporre niente agli scienziati che collaboravano con noi, tutte persone serie in grado di prestare la loro opera, anche sul campo, insieme ai soccorritori, senza perdere alcuna dignità e senza prostituirsi ad esigenze di “tranquillità” (?) del Governo.
Inutile chiedere qui che Repubblica decida, una volta per tutte, di rendere pubbliche tutte le intercettazioni di cui è venuta in possesso a mio riguardo. Non lo faranno mai: è troppo bello per loro continuare nello stillicidio di telefonate rese incomprensibili, e quindi liberamente interpretabili, perché fuori da qualsiasi contesto, dove la pubblicazione, se non serve ad aggiungere elementi alla condanna che quel giornale ha pronunciato su di me serve – e hanno ragione, serve – almeno ad evidenziare il “tono” della mia voce e da lì arguire, evincere, immaginare, arrivare lontano quanto la fantasia e l’invenzione politicamente orientata possono permettere.
Passerà, prima o poi.
O no?