L’Aquila, il tuo tempo, la nostra storia . . .

7 novembre 2012 | 06:16
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L’Aquila, il tuo tempo, la nostra storia . . .

di Ariale

E’ il 20 novembre 2010. Siamo rientrati da poco con l’umidità che ci ha mangiato vivi.

E’ sera. Lui parla nella nostra taverna. Sta cercando di riprendersi davanti al camino acceso con un bicchiere di vino rosso che muove con maestria.

Sono seduta di fronte ai capelli bianchi di mio nonno che nonostante la sua dolorosa gotta ha voluto sfilare lo stesso, almeno per un pezzetto, con le bandiere neroverdi e la pioggia impietosa in quel corteo silenzioso e numeroso che è arrivato a piazza Duomo: “L’Aquila chiama Italia”.

Noi andavamo piano, lui zoppicava con l’ombrello tenuto faticosamente aperto.

“E’ dall’inverno di 67 anni fa che non vedevo così tanta gente chiedere giustizia: sinuosi e composti, in migliaia, nelle vie della nostra città. Allora per un omicidio oggi per l’assassinio di una città. . .

Lo ascolto senza interromperlo perché so che la sua memoria è custode di storie affidate più alla parola che alla scrittura e che ha pena per tutto ciò che non avrebbe mai voluto vedere.

Una storia da lui partecipata, ma per me vivibile solo nei manuali o nelle foto in bianco e nero in cui cerco di entrare avida per cogliere le atmosfere fermate nello scatto.

E’ da un po’ che mio nonno si allontana nel tempo, mentre i ricordi lo prendono e lo riportano lì, indietro, all’inizio, dove si torna più spesso quando si avvicinano le ombre.

Mi racconta di quando tutto iniziò, quella sera del 27 novembre 1943. . .

“E’ una di quelle sera in cui fa molto freddo. I cappotti non sono abbastanza caldi. Abitiamo in via Cascina. La giornata si è finalmente conclusa con l’ultima pena quotidiana: un allarme antiaereo.

Nell’aria ferma, rigida, del rigore invernale sentiamo degli spari. Una mitraglietta sta esplodendo una raffica qui vicino. Con il cuore in gola mi affaccio, sono bambino, mia madre mi trattiene spaventata, mio padre corre fuori, le persone urlano. Sfuggo al controllo della mamma, seguo papà, ci avviciniamo a via San Martino. Sul selciato bianco della via medievale il rosso del sangue sembra ancora più rosso.

Guardo con gli occhi sbarrati due corpi trafitti a terra, un uomo e una donna.

Li conosco . . . li riconosco . . . sono ju Murittu e la moglie . . .Erano. . .

Sopra i corpi dei genitori le grida straziate dei quattro figli, il più piccolo di appena 5 anni, echeggiano nella notte per un’ennesima tragedia frutto della follia della crudeltà.

Ju Gobbo, un milite fascista di Barisciano, dipendente alle pompe funebri Calisti, ha ucciso a via San Martino, improvvisamente, senza motivo apparente Ugo Berardoni, un falegname soprannominato ju Murittu, e sua moglie . . .

. . . La follia non ha bisogno di presentarsi. Né motivi per entrare. Si maschera e gioca a dadi i nostri destini. Il dolore che seguì quelle assurde morti, a L’Aquila, fu silenzioso . . . qui è sempre silenzioso. Lo viviamo con ritegno, lo ingoiamo, ci marmifica nelle pose solenni della dignità.

La città incassò un ulteriore sopruso dopo quello dei nove martiri di cui non si avevano più notizie dal settembre precedente. O almeno, sembrò incassasse . . .

Ma come una goccia d’acqua cade silenziosa e costante su una pietra, e nel tempo la perfora, così prendemmo coraggio. Nelle case si vociferava a bassa voce, c’era trepidazione.

Alla fine si organizzò, dopo anni di sudditanza al fascismo, un corteo numerosissimo in silenzio, come oggi, nonostante i tedeschi, il regime fascista ed i dettami delle libertà personali e pubbliche, per via Garibaldi, fino ad arrivare alla Silvestrella, a viale Don Bosco, dove era il comando tedesco, per chiedere la testa del colpevole.

Ero ragazzetto, quasi schiacciato dalla calca, tenuto forte per mano da mio padre che aveva voluto che partecipassi anche se mia madre era terrorizzata.

Ricordo la mia tristezza. . . quell’uomo buono mi regalava dei pezzetti di legno che mi divertivo a lavorare. . . io non capivo . . . neanche mio padre . . . ma almeno loro erano indignati, furenti, intrepidi. Seguivamo una bara vuota guidati da Scarafò, Alessandro Dionisio, un ricercato comunista, che non esitò ad esporsi coraggiosamente per reclamare giustizia per quella famiglia così benvoluta e spezzata tragicamente da una cattiveria corazzata dietro una divisa di regime.

I tedeschi e i fascisti intravidero, in quella compattezza, un insidioso pericolo. La città si fece sentire con coraggio e fu ascoltata. Nonostante il regime, la paura e la fame. Così, alla fine di gennaio del 1944, Ju gobbo venne giustiziato in una cava vicino al cimitero, di spalle ai fucili, come per i reati infamanti e ignominiosi. I parenti delle vittime, nella dignità del proprio dolore, non vollero partecipare all’esecuzione.

Mi sono sempre chiesto se la voce univoca sia stata consolatoria per quei quattro figli rimasti orfani. Se si siano sentiti tutelati dalla nostra azione.

Se in qualche modo il nostro farci carico, farci comunità, li abbia protetti come era giusto che fosse.

Non ho saputo più nulla di loro anche se, ogni volta che ho camminato per via San Martino, il pensiero di quella famiglia mi assaliva all’improvviso, rivedevo quel sangue così rosso, come se le pietre di quella strada recassero un tatuaggio che mi riportava indietro nonostante gli anni trascorsi.

La rabbia il dolore il coraggio la sfida . . .sono questi frammenti a fare la storia corale di una città.

Anche se il coraggio, a volte, salta una generazione.

Come ora, forse.

Ma non allora.

Anzi, quel seme di sfida, di ribellione, fu raccolto dai figli di quel tempo, nel 1971, con i moti per il capoluogo. . . moti dell’anima . . . in realtà . . . gli ultimi, forse, se si escludono quelli delle carriole di gran lunga più modesti.

Era il 26 febbraio del 1971. . .

. . . il cuore mi batte forte corro mentre i rintocchi delle cento campane quasi sovrastano le nostre voci concitate.

Ci hanno tradito.

Dobbiamo fermare la storia con le nostre mani.

Vado con gli altri alle sedi dei partiti i pugni alzati ostili entriamo spacchiamo catapultiamo tutto fuori dalle finestre mobili sedie carteggi macchine da scrivere in mezzo ad un vociare esaltato.

Facciamo falò . . . è difficile accenderli per terra è bagnato ci sono mucchi di neve sporca fa freddo spargiamo benzina prende fuoco bene. Le colonne di fumo nere si alzano.

Ai quattro cantoni accatastiamo le prime barricate . . .

. . .barricate d’orgoglio per condannare indignati l’alzata di mano dei rappresentanti aquilani che hanno ratificato l’accordo preso ai vertici dei partiti.

L’Aquila capoluogo di regione, “blasone di nobiltà fittizio”, 3 assessorati, ben 7 a Pescara: città antica contro città moderna, storia e cultura contro economia e progresso.

Corriamo siamo inseguiti dalla celere sono in tanti migliaia e migliaia.

Siamo senza remore scalmanati urliamo la nostra rabbia brucia l’orgoglio ferito.

Corriamo verso le case di qualche politico . . . entriamo facciamo volare ogni cosa arde la roba il mobilio strappiamo le tende fuggiamo.

Ci hanno tradito.

Siamo inferociti ho i guanti neri per lanciare sampietrini mi copro con un fazzoletto piegato a triangolo sul viso e legato dietro: sbuchiamo dai vicoli improvvisamente numerosi ci diamo i segnali anche con lo sguardo le tasche piene le mani occupate ci fomentiamo a vicenda con le urla lanciamo sassi, biglie, bottiglie e poi via via veloci furtivi scompariamo nei vicoletti mentre la polizia ci carica: facciamo barricate con le saracinesche divelte inseguiti dall’odore acre dei gas lanciati contro noi. Siamo fratelli improvvisamente fratelli: avvocati, medici, imprenditori, contado.

Spinte dal basso rinnegano gli accordi presi ai vertici dei partiti a scapito di una città storica che viene ad impoverirsi con lo spostamento degli uffici da sempre centri di economia e potere.

Si è decretata per sempre quella rivalità e campanilismo fra le due città che ha continuato ad alimentarsi sino ad oggi.

Nei giorni seguenti la città si ferma nello sciopero generale. Manca il pane.

Continuiamo… Assaltiamo . . .devastiamo . . .

A piazza Duomo bruciamo il benzinaio, spacchiamo le vetrine di “Monti” buttiamo cappotti, vestiti, gonne, pantaloni dalle finestre prendiamo i copertoni s’infiammano bene ci accaniamo ai posti di blocco.

Abbiamo ragione. . . ci hanno tradito . . .Dobbiamo fermare la storia con le nostre mani.

Ci sono feriti, altri vengono arrestati nella furia scavalco persone svenute.

Una manganellata mi prende colo sangue mi rifugio dentro un portone quando la tensione si calma sguscio fuori vado a casa sanguinante in stato confusionale trattenendo stretto nelle mani un tubo di plastica nera con una raggiera bianca intorno l’ho raccolta da terra serve ai poliziotti per sparare il gas. Lo dò a tua madre che ha circa 12 anni, le dico di conservarlo a memoria di un incendio collettivo che ha contagiato tutta la popolazione in un’esperienza “meravigliosa” per questa città: un corpo a corpo con “gli altri”, un momento di esaltazione sulle rovine fumanti dei partiti con il fumo delle barricate gli incendi i vasi rotti le vetrine devastate gli assedi i posti di blocco.

Anche allora, come nel 1943, l’iniziativa fu popolare.

Fu il delirio di un corpo che cercò di resistere a tutti i costi.

Quando dopo qualche giorno il clima si distese,

ci rendemmo conto che non saremmo mai più stati giovani come in quelle notti.

Da lì cominciò la spoliazione, il declino.

Ora che è passato tanto tempo, che ho quasi 90 anni, questi ricordi mi mettono malinconia.

Tante cose sono cambiate, ma soprattutto sono cambiati gli uomini.

Forse alla fine ci siamo arresi, la distanza fra questi politici e la gente comune si è allargata.

Solo con la rabbia ci si è mossi all’unisono spezzando una abituale rassegnazione e rinvigorendo la nostra comunità custode di una ribellione genetica che vive ormai barricata, quasi passivamente, dietro la dignità della propria storia.

Quelle volte è stato esaltante, un corpo a corpo che ha sfidato le regole del gioco e ha rigenerato la forza di questa terra, almeno per un po’, almeno fino a quando il torpore della rassegnazione non ha riconquistato territori persi. Siamo tosti ma anche deboli”.

Mio nonno ha finito di parlare. Il cerchio si è chiuso: dolore, rabbia, dolore.

Nevicava nel 1943, quando il corteo sfidava il regime, nel 1971 quando l’Aquila bruciava nelle barricate, nevischia oggi che in 20.000 abbiamo sfilato.

Sembra quasi che le neve ci inviti a riscrivere, sulle pagine bianche delle nostre strade, una nuova storia.

Il coraggio a volte salta una generazione” ha detto.

Ma io sono giovane, la generazione del ritorno, quella che vuole riallacciare i fili del passato, riannodare ciò che è rimasto sospeso, la ribellione dei nostri nonni. . . la nostra che sopisce . . . per tessere una trama che narri . . . con un’unica voce. . . i tesori di una città.

Che c’è. . .Vuole continuare ad esserci. . .

Ad ogni costo.

A qualsiasi prezzo.

In una storia che ritorna.

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