
di Vincenzo Battista
Quando usciva padre Girolamo, L’Aquila era altra, semplicemente altra cosa, imperscrutabile, uno schermo con immagini che passavano, ma senza valore, senza apparente significato: mai desiderata L’Aquila, forse percepita, non lo sapremo mai; distante sì, remota, meta possibile, ma con cui nessuno, tutto sommato, voleva misurarsi, in quell’immaginario dilagante e incatturabile, dei ragazzi, con i pantaloni corti, anche d’inverno.
{{*ExtraImg_80456_ArtImgRight_300x400_}}Quando usciva padre Girolamo la città, questa sì, era Santa Croce, spaziale quanto bastava e in un solo colpo d’occhio delimitata; chiusa e protetta; certa nella sua frontiera, il suo perimetro, percorso e vigilato, un [i]castrum[/i], una fortificazione con al centro invece di un decumano, una ripida discesa con due chicanes per carrozze in legno e cuscinetti: i pedoni lo vedevano all’ultimo momento . . . E poi mura antiche e camminamenti, archi, palazzi come torri per nascondersi, piazze d’armi improvvisate e persino un agorà per il fuoco di San Giovanni, la prova iniziatica: saltare il falò, il fuoco, alla ricerca ancestrale del primato, il superamento della quotidianità, mostrato, ostentato; il palazzo dei “questurini” come una sorta di presidio dell’Unesco, e per non farsi mancare nulla anche un monastero diruto del ‘300, una sorta di Cinecittà, gli Studios, con Montecassino assediato da conquistare, per esempio, oppure con i droni (aerei militari senza pilota) cioè le “azze” dei biancospini, legate con un filo intorno alla testa, e fatte volare anche all’altezza di un secondo piano. Ma poi si continuava con i teschi dell’ossario e l’unica cosa che saltava in mente era quella di giocarci a calcio.
Quindi, in una scenica Full Metal Jacket, si combatteva, anche corpo a corpo, con le spade in legno e lance molti secoli prima, e dopo con le cerbottane.
{{*ExtraImg_80457_ArtImgLeft_300x225_}}Sopra i cumuli di macerie secolari con le armature di cartone, Achille restituiva il corpo di Ettore che così poteva essere sepolto e trovare la pace. Achille piangeva poi, non perché rivedeva in Priamo suo padre, ma perché a calci e schiaffi veniva riportato a casa, dopo che tutto il quartiere si era mobilitato, la madre piangeva, il padre bestemmiava, lo avevano cercato, trovato poi, ma a tarda sera. Non si capirà mai perché si era nascosto nell’ossario a ricomporre uno scheletro con grande perizia, nemmeno dopo un lungo interrogatorio…
Loro, l’essenza di tutto questo, i ragazzi di Santa Croce che non riuscivano ad essere normali: scout, lupetti e salesiani dell’oratorio Don Bosco la domenica a servire la messa, e della “via Paal”(ma che nessuno aveva letto) nel resto della settimana nella loro “citta”: un cambiamento genetico, inspiegabile, arcano.
{{*ExtraImg_80458_ArtImgRight_300x225_}}Quando usciva padre Girolamo, la sua missione non era quella di girare nella provincia dello Shaanxi in Cina, ma dalla sua “casa”, come un fenicottero, si fermava a guardare. In quel modo, con un solo piede poggiato a terra, raggiungeva in missione gli altri ragazzi, un branco di lupi magri e famelici, fino a cercare di toccarli, così sarebbero diventati suoi figli redenti dal peccato originale, e dopo, questi, dovevano correre nel luogo certo, invulnerabile, appunto la ”casa”, prima che una violenta scarica di calci, pugni, sberle li ricoprisse in una teologia del corpo umano che voleva così la sua prova ordalica, “magica – religiosa”, per tutti.
“Il superamento”: un’iniziazione per placare la sete, lotta eterna tra il bene ed il male, scacciato.
{{*ExtraImg_80459_ArtImgLeft_300x225_}}Tallonatore, pilone, mediano di mischia, seconda linea, tre quarti d’ala, ma con “salta la mula”. Una sorta di mischia “salta la mula”, forse propedeutica al rugby (molti quando lasceranno “la città” andranno a giocare a rugby), e lì, scendevano in campo i pesi massimi del quartiere amati tanto da essere tenuti a distanza, non si sa mai. “[i]Il rugby è una buona occasione per tenere lontani trenta energumeni dal centro della città[/i]”, scriveva Oscar Wilde.
Si iniziava con una lunga fila piegata con la faccia che guardava a terra, con le braccia ai fianchi del compagno, che terminava, si appoggiava infine alle mura medioevali. Gli altri dovevano saltare, dicendo “salta la mula” e con lunghe rincorse, far spazio ai compagni, nella piramide umana che prendeva le forme più bizzarre, come un [i]souffle[/i] che si gonfia a dismisura e poi cede da qualche parte. Anche per lungo tempo tra urla e imprecazioni si rimaneva ancorati per fiaccare la mula: come “[i]ju ruspu alle sassate[/i]”. Quelli giù dovevano tenere; aggrappata sopra, l’altra squadra, resistere e mantenere le posizioni. Chi passava con le buste della spesa, non poteva far altro che guardare quello spettacolo, quei deficienti – dicevano – che chiusa la scuola, battevano in lungo e largo la frontiera e il quartiere: se ne impossessavano con le loro regole.
{{*ExtraImg_80460_ArtImgRight_300x225_}}Ulisse di Itaca, invece, riuniva i suoi compagni a “buzzico”, “in notturna”. Con la sua astuzia e la mancanza di scrupoli, si lasciava per ultimo, niente doveva essere d’impedimento alla desiderata fine dell’impresa, resistere, depistare e liberare tutti usando le tecniche più raffinate, i nascondigli, i travestimenti dentro la magia della notte. Sotto un lampione si calciava con i piedi un barattolo, poi tutti scappavano e si nascondevano, solo uno lo raccoglieva, ne restava a guardia, ma doveva scovare gli altri, individuarli, chiamarli per nome e battere poi tre volte a terra “ju buzzico”. Per liberare i prigionieri l’ultimo, l’Ulisse salvifico, doveva arrivare vicino alla tana, non farsi vedere, calciare il barattolo e liberare tutti, ma sempre attenti a quel rumore del barattolo, al suono che rimbalzava, al suo primitivo messaggio fatto di niente, di quanto poco potesse bastare intorno a quel barattolo, penso, mentre lo raccolgo, poggiato su un muretto, forse servito per una pietanza, per qualcuno che ha lavorato per sgombrare le macerie ed è andato via, mentre scendo a piedi il ripido rettilineo, prima della chicane.
{{*ExtraImg_80461_ArtImgLeft_300x225_}}Ogni tanto ci torno a Santa Croce. E’ come scavalcare una cornice ed entrare in quadro metafisico di Giorgio De Chirico: l’enigma, l’assenza dei personaggi umani e la solitudine; scene che si svolgono davanti ai nostri occhi, ma fuori del tempo.
Tornare lì è sempre un viaggio nuovo, una sorta di pellegrinaggio all’antica come scriveva Ignazio Silone, mai uguale a se stesso, fino a casa di mia madre, squarciata, sempre più aperta, sempre più vivisezionata, una “[i]Lezione di anatomia del dottor Tulp[/i]” di Rembrandt, sempre più “indagata” dall’esterno: metamorfosi delle rovine nel divenire, in continuo disfacimento, come se non bastasse, non avesse fine. Forse è la metafora della vita degli aquilani, inconfessabile, quello che resta, guardando dai bordi della città.
{{*ExtraImg_80462_ArtImgRight_300x225_}}Una volta commisi l’errore di portarla a Santa Croce, mia madre ottantenne, a rivedere la casa. Lei si aggirava intorno, la guardavo, muoveva le braccia, mappava forse “quella notte ”, quando la battaglia ebbe inizio, quando i cavalieri dell’apocalisse scesero verso la città, mentre gli intonaci si torcevano in un rumore irriproducibile, si scuotevano prima, si aprivano poi, e come in un [i]video games[/i] mia madre usciva, curva e incosciente, trovava un buco nella parete del primo piano da cui entrava un po’ di luce, mentre dietro a lei cadevano le mura, si univano in cumuli i detriti, ma dopo che era passata. Dopo.
Più tardi dirà del pantheon di divinità, includendo i familiari, che l’hanno protetta; la soprannaturalità che decide i destini, intervenuta, impalpabile, il caso e la necessità che lottano tra loro, una sorta di cammino sul filo del rasoio tra resistenza e declino, tra vita e morte, che ha scelto la prima, comune, a tanti, che si sono salvati.
{{*ExtraImg_80463_ArtImgLeft_300x225_}}Prima di andare via, come se ci fossimo dati appuntamento, con in mano una cassetta di pomodori bolliti, in bottiglia, datati, che avevo preso dal basso, davanti a me, e in quel modo, la pattuglia del 113. Resto così, fermo, guardo la scena: mia madre lentamente si avvicina, si appoggia alla macchina e piange, la donna poliziotto abbassa il vetro del finestrino e piange, l’autista si commuove.
Resto così, dentro Santa Croce, dentro le voci . . . Se poggi l’orecchio a terra, puoi sentirle.
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