
di Ariale
Li sento, che tirano, mi strattonano, quasi mi fanno cadere in questo filo immaginario che ci unisce, e passa, da una parte all’altra del pianeta.
Chissà se anche loro avvertono la mia presenza.
Quando mi volto ad est, verso la sorgente del sole, dove guardo più spesso, li vedo nel Kosovo, in Turchia, nelle lande del Kazakistan e poi in Cina davanti il riso appena lessato mangiato con le mani.
Se guardo ad ovest ritrovo paesaggi più familiari, di consumo, spagnoli, portoghesi che poi girano dall’altra parte, negli Stati Uniti d’America, in Canada.
Siamo legati, eppure sciolti, da questa linea che taglia la terra, come una torta da riempire con panna e cioccolata, sentimenti e vita, che unisce latitudini, e non solo.
Una corda ci lega, mi tira quando si spostano, a volte mi fa cadere perché dall’altra parte c’è qualcuno che corre dietro una mandria, si piega a raccogliere frumento, prega in ginocchio in una moschea, inconsapevole di tirare altre storie su questo filo invisibile . . .
Le vite corrono lungo questo 42° parallelo, si consumano, si spengono, mentre altre si accendono, come le luci di questi Natali, ogni anno più strani.
E’ dicembre e qui da noi è Natale, ma non in Kazachistan.
E’ il 24 dicembre. Sento i loro affanni . . . Si alzano nelle tende di iuta e canapa e avviano di nuovo una giornata antica nelle loro lande desolate.
Con i suoi occhi a mandorla, stanchi e miti, si prepara, mentre io ancora dormo, per vendere le merci portate a piedi sul carretto spinto a mano. Poi si sposterà attraverso la polvere e gli immensi paesaggi deserti verso le alte catene montuose dove la spingerà la vita della sua comunità nomade.
Io mi struccherò, prima di andare a dormire, mentre lei, quando il giorno si spegne, avrà accudito gli animali, in gesti ripetuti da millenni, e seguito con lo sguardo qualche aquila in alto per affidare al suo volo intime speranze che mi arrivano come un brusio lontano nella mia notte calda e tranquilla.
Lei spera che giungano, in questo gelo notturno, a Samarcanda, la città dalle mille luci, che non ha ancora visto, ma di cui ha sentito meraviglie nei racconti sulla via della seta.
Lì, nella sua tenda circolare, non è Natale, non si aprono i pacchetti, le luci non sono colorate.
E’ il 24 dicembre ci prepariamo a festa, accendiamo le candele, agghindiamo la casa, la carta argentata riflette gli occhi dei bambini smaniosi di aprire i regali, il profumo del lauro usato per il capitone supera quello dolciastro dei mandarini, ma non l’odore del torrone.
Brillano i gioielli delle donne, gli abiti nuovi, le creme messe, il profumo appena aperto.
Qui è Natale ma non lì, nel Kosovo, dove tornano i ricordi dei profughi, costretti a fuggire per non vedere più orrori. Hanno lo sguardo di chi ha respirato la guerra e la dignità di chi ha visto il dolore di due popoli affrontarsi per una stessa terra. Nel buio della memoria risuonano le visioni di chi ha subito una atroce pulizia etnica, brandelli di una storia che uccide.
Cercano le luci, i profughi kosovari, non di Natale, in questo 24 dicembre, ma quelle che invece possono districare i nidi aggrovigliati dentro se stessi.
Il comune filo del 42° parallelo si è impregnato della tragedia, mi porta il loro dolore.
Noi abbiamo finito il cenone, le portate sono state tante, anche troppe, i bambini aprono finalmente i regali, guardiamo il loro stupore e ci ricordiamo del nostro, andato piano piano via.
E’ rimasta la tradizione.
Mentre andiamo a messa c’è una luce che brucia inTurkemenistan, ma non è di Natale . . . è dei pozzi dove operai continuano a seguire i trivellamenti per scovare i siti in cui da secoli si annida il petrolio.
Mentre l’odore del greggio impregna ogni cosa, e brucia persino le narici, la fatica di un altro turno sta finalmente concludendosi garantendo la ricchezza agli altri, ma non a loro che calcano quella terra da secoli.
Alzano lo sguardo verso lo skyline del cielo, bucano i confini . . .vanno oltre . . .
C’è dell’altro che corre su questa curva immaginaria che lega le civiltà del 42° parallelo.
Qui è Natale, ma non lì, ad est della nostra latitudine. . . io li guardo, in questa notte di Natale, e sento la loro fatica, e penso che forse anche loro mi stanno guardando e lanciamo insieme i nostri pensieri nella notte ad incontrarsi, perché non è il Natale ad unirci, ma i sentimenti a rendere uguali gli uomini, su questo 42° parallelo in cui le civiltà corrono, si dipanano, vivono, sperano e soffrono. . . in una finta diversità.
Ed è questo pensiero, senza tanti fiocchi, del comune sentire, a restituirmi il senso di un Natale quotidiano ed unire le terre nell’abbraccio di un parallelo, in una sensazione, questa sì, magica per davvero.
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