
di Xavier Jacobelli
31 dicembre alle 04:00
Ultimo giorno dell’anno, molte cose da rottamare. Fra queste, alcuni neologismi quotidianamente inoculati come veleni nel linguaggio del giornalismo sportivo. Che sarà pure mitridatizzato a tutto, ma rischia di valicare il punto di non ritorno.
Il 19 dicembre scorso, abbiamo ricordato il ventennale della scomparsa di Gianni Brera, Maestro Unico e Insuperabile.
Dovunque sia, siamo certi che egli inorridisca, ogniqualvolta gli capiti di ascoltare o di leggere i mostriciattoli partoriti dalla tv. La quale, ahinoi, ne genera in continuazione e trova immediatamente esca nella superficialità e nel piattume dilaganti.
Fra le diverse pecche che la categoria dei giornalisti deve farsi perdonare, una riguarda i ripetuti e ormai insopportabili maltrattamenti della lingua italiana. Tanto più il tempo passa quanto più la situazione peggiora. Ho riletto un post sul blog di quotidiano.net, andato on line nell’ottobre scorso. Chiedendo venia per l’autocitazione, spesso inelegante, ma stavolta doverosa, ne ripubblico alcuni passi. Le depravazioni lessicali continuano a esondare dall’etere e dai satelliti.
Tracimano sulla carta stampata e sui siti. Sono tracce inconfondibili di una generazione incapace di dare una notizia (solitamente, l’ultima, in ordine di tempo, è il certificato di nascita prodotto dai genitori all’ufficio anagrafe), cresciuta a colpi di copia e incolla e lesta ad appropriarsi degli obbrobri tv.