
di Ariale
Sotto i portici lo salutavamo tutti, Libero. Corpo magro, infagottato in un impermeabile beige, collo incassato fra le spalle curve, viso scavato ma ordinato, si fermava ed aspettava, garbato, che tu passassi, occhi lucenti non offuscati dalla evidente malattia mentale, ti salutava a modo suo con
[i]“Ah Che mondo”[/i] esclamato continuamente a tutti noi sconosciuti che un po’ eravamo la sua famiglia. A volte ci seguiva per un po’, spirito infantile ingabbiato in un corpo invecchiato, semplice, innocuo nell’essere e nel partecipare alla vita: un bambino in un adulto. E tu questo lo sentivi, intravedevi quel mondo buono, Libero come il suo nome, e gli volevi subito bene sino a sentirne la mancanza, sino a rivederlo nelle immagini che scorrono come fotogrammi nella memoria, a connotare un’epoca, a sorridere con tenerezza quando lo ricordi avviarsi, con ogni tempo, con il suo passo incerto e sbilenco verso la fontana luminosa.
Ora c’è lei. La vedo spesso, in periferia, con il suo strano trabiccolo, il cappelletto sulla testa ormai calva, gli occhiali grandi a velare il vuoto delle sopracciglia, un sorriso perenne sul viso ossuto. Su e giù, su e giù. Quando il caldo si attarda fino a sera, nelle belle notti estive, si azzarda ad arrivare oltre per poi risalire piano con il suo cane nero che la segue ovunque, a volte affannosamente, con la lingua fuori, mentre la lucetta del ciclomotore è un piccolo faro che spezza la monotonia delle sue giornate e a noi conferma il coraggio di vite anonime che ogni giorno incrociamo anche distrattamente.
Una volta le ho parlato e la sua voce ferma non rivelava il tradimento del suo corpo e ancora oggi sorride, sorride, salutando cordialmente. E tu sei imbarazzato dalla ricchezza della tua salute, quasi ti vergogni, di fronte a lei, spirito che ogni giorno guadagna terreno al suo corpo minato e con malinconia guardi la sua unica figlia aiutarla a scendere o a salire, ultimo tributo, ultimi gesti, che curano una vita che le ha dato la vita.
A volte lo vedo ancora camminare a testa bassa vicino ai muri, quasi rasentando le pietre, nascondendosi nel bavero alzato, lo sguardo chino sul terreno che i suoi passi nascondono.
Era un professore universitario, sembra uno qualsiasi, figura trascurata, ma a lezione si trasformava in un altro uomo, sicuro, intraprendente, con i segni nervosi, decisi tracciati sulla lavagna, il tono di voce alto, lo sguardo fermo, risoluto, che ti faceva viaggiare nella storia, vedere e conoscere cognomi antichi, sentire l’odore del Medio Evo e ti trasportava in altri mondi per poi tornare giù, qui con noi, richiudersi nel bavero, rasentare i muri e rientrare a casa con il capo chino, schivo, furtivo, nel suo mondo abitato da gatti e libri per ridiventare [i]l’altro.[/i]
Negli anni ’80 scendeva da colle Sapone al Torrione camminando in frac, in qualsiasi stagione, con un cilindro sulla testa, la camicia bianca abbottonata sino all’ultimo, il bastone che alzava e abbassava accompagnando i suoi passi, irriverente, i capelli lisci, lunghi, lo sguardo stralunato, il viso un po’ piatto. In pieno giorno si avviava verso il centro, in questo strambo abbigliamento, ormai personaggio. Era giovane, originale, curiosa, particolare. Non l’ho vista mai più.
Quando corro a Bazzano li incontro, lui raggiunto ormai dalla vecchiaia, sua figlia che lo segue da vicino, quasi a volerlo proteggere, occhi azzurri entrambi, stesso pallido incarnato, passo incalzante.
Parlano poco fra loro. Lui è preoccupato: lei è stata licenziata, non è più giovane, faceva la commessa in un supermercato ed ora per curare la sua depressione cammina, ma quando li incrocio sento i loro pensieri pesanti che vorrebbero curarsi a vicenda, e la disperazione del padre che non sa come aiutarla e la guarda, ed in quello sguardo investe tutta la sua vita, la potenza e l’impotenza di un affetto enorme, sempre uguale a se stesso, che non ha però la possibilità di guarirla.
Sono sedute su una panchina della villa, il sole entra tra le fronde verdi degli alberi, i bambini giocano davanti al Milite Ignoto, il bel passeggio serale della nostra città. Sono due ragazzine magre, capelli lisci, una bionda e l’altra mora, un’agendina dove scrivono le loro cosine che ora rigiro fra le mie mani con gli occhi luccicanti e che ogni tanto prendo dal mio cassetto dove l’ho preziosamente conservata. Mi rivedo mentre attendo che la vita si compia davanti ai nostri occhi con lo stupore di chi ha la testa piena di sogni guizzanti e frivoli, ed è smaniosa nell’aspettare l’attimo successivo, sicura che niente di male sarebbe successo.
Mai avrei pensato che sarebbe scomparso quasi tutto quello che vedevo.
Ma 1000 sono le vite che ho vissuto in un’unica vita.
Incantata Disillusa Timida Sfrontata Sicura Incerta Depressa Serena Morta Viva Finita Rinata Isterica Paziente . . .
Intrecciandomi ogni giorno con persone, fatti, circostanze.
Eppure, negli incontri casuali con gli altri ho sempre visto la mia gente, i compagni di un viaggio in cui mi identificavo, anche solo per un momento, e mi riconoscevo.
E mi ricordavano, salvandomi, chi ero e dove ero, come se fossimo un’unica persona.
Ed in questa falla che si è aperta in me, negli anni, si è annidato tutto . . . la pioggia che correva nelle arterie, la neve che cadeva dentro la gola, l’aria che andava a fermarsi nei polmoni, il dolore, mio e degli altri vicino il battito del cuore, nel linguaggio universale di chi è vivo e proprio per questo non può essere esentato.
E allora ho capito, ho finalmente capito. . .
e va bene, va bene anche così,
con tutti i casini e i problemi, perché si muove, qualcosa si muove , anche se non sembra . . .
non visibile, impalpabile, leggero, ma riesco finalmente a guardarlo, dopo tanti anni, con ritrovato stupore, un futuro che ancora non vedo ma che [i]sento[/i], impercettibile, imperfetto ma, incredibilmente nostro, lavato da un dolore a cui abbiamo, però, resistito e che ci ha avvicinato a vite e mondi diversi.
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