
di Fulgenzio Ciccozzi*
Una mattina di gennaio, alle prime luci dell’alba, esco quasi sornione dalla ristrutturata abitazione cittadina. Sono passati pochi mesi da quando ho lasciato uno dei nuovi quartieri “dormitorio” etichettati con un neologismo anglosassone: New Town o, forse meglio, Ghost Town. E meno male, sarebbe spontaneo e lecito affermare, anche in virtù degli ultimi accadimenti che lasciano trapelare una vita condominiale che per adesso sembra essere gestita dall’incertezza.
Invece, di anni ne sono passati quasi quattro dal momento che ho dovuto lasciare la casa della periferia rurale in cui vivevo con la mia famiglia. Il terremoto ha ormai preso in prestito la vita di tutti noi aquilani, anche di quelli che sembrano aver solo sfiorato la tragedia. Ha dato morte, ha distrutto case, ha distribuito incertezza, ha seminato dolore e ha inghiottito quel po’ che restava di un’economia già gravemente malata.
Un evento che ha accresciuto in maniera esponenziale la macchina burocratica che ingoia avidamente la tranquillità delle famiglie e delle imprese, schiaffeggiando i cittadini e gli imprenditori con un fare aggressivo e arrogante.
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Anche gli animali sembrano averlo capito. Un cagnolino, forse abbandonato, mi viene incontro scondinzolando. Il suo sguardo chiede un po’ di cibo e un po’ di affetto che qualcuno gli ha negato. Là vicino, accanto al cancello di una casa rovinata dal sisma, nel punto in cui la stradina dissestata di via Pitinum si incontra con via Carducci, ci sono delle ciotole improvvisate che i residenti riempiono di cibo per sfamare i “gatti di contrada Romani”.
{{*ExtraImg_92922_ArtImgRight_290x448_}}E’ domenica mattina. Camminando sul marciapiede, intorno all’isolato che cinge le scuole liceali e la moderna struttura della Regione, imbocco via Amiternum, segnata dai binari che ricordano il progetto, ormai abbandonato, della tramvia: allora erano altri tempi e c’erano altre esigenze. I fili tesi della corrente, che scorrono neri sopra alla strada, ruggiscono al contatto con il pulviscolo nebbioso sospeso nell’aria umida invernale. I raggi del sole si affacciano già stanchi alle spalle della città, e a fatica cercano di rompere quella monotona atmosfera.
Qualche fabbricato è tornato ad ospitare i suoi inquilini. Lo sguardo si posa curioso sulle finestre che lasciano filtrare le luci accese degli appartamenti tornati a nuova vita. Di fianco e di fronte ad essi, alcuni fabbricati sono rivestiti con teloni bianchi. Spuntano qua e là gru ad indicare che qualcosa si sta muovendo. Un’edicola e un tabaccaio tentano di restituire un po’ di normalità a questo quartiere immerso in un difficile contesto. In mezzo ad essi si trovano giardini abbandonati, le cui panchine e attrezzi ludici sono coperti da erbacce: attendono che qualcuno venga a occuparsi di loro affinché tali spazi tornino a ospitare nuovamente bambini e anziani.
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E’ in questi luoghi che sta tentando di rinascere la nuova città. Sono questi i luoghi che si interpongono tra la città murata e i centri commerciali. Sono questi i luoghi che involontariamente rubano l’attenzione della gente distogliendo i loro ricordi dal cuore della stessa. Già, una città sola, o “una città inesistente, che non c’e”, come qualcuno ha cinicamente lasciato intendere. E la sera, le ombre riflesse sul selciato dei vicoli della città antica, che si allungano e si susseguono al passaggio dei passanti sotto i lampioni, sembrano volergli dare ragione. Ma, la sua storia è lì a smentire tale incauta affermazione. La sua gente è qui a ricordare il suo passato e a vivere caparbiamente un difficile presente. Essa saprà attendere e lottare per riprendersi quel piccolo mondo: momentaneamente silente per chi non sa ascoltare e gradevolmente loquace per chi lo sa amare.
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