
di Vincenzo Battista
Il legionario romano è a terra, appena caduto da cavallo con gli occhi chiusi spalanca le braccia su quel fascio di luce, allegoria della grazia divina, che lo investe, mentre il palafreniere blocca il cavallo e osserva la “scena”: ” Conversione di San Paolo” (1600 -1601 c.a.), olio su tela (230×165) di un Caravaggio sempre insofferente, lacerato dalle proibitive passioni e ardori, per di più nell’età della Controriforma, che dipinge un’iconografia insolita con il cavallo e il suo posteriore che dominano il quadro e l’apostolo ai suoi piedi in una prospettiva spettrale tra la fitta oscurità che è in fondo la sua “maniera”, drammatica. “[i]L’impossibilità dell’uomo di andare oltre . . .[/i]” in quella sua pittura costituita da inquietudine e malinconia della vita, pulsione e caducità, penombre e squarci di luce rivelatori, che non scende a patti con i committenti, anche se si tratta di un monsignore, Tiberio Cesari, tesoriere di Clemente VII, che gli chiese un dipinto raffigurante Saulo (San Paolo).
Racconta la narrazione che San Paolo fu “folgorato sulla via di Damasco“, nel suo viaggio finalizzato ad imprigionare gli adepti della nuova fede della religione cristiana, i seguaci di Cristo. Caduto da cavallo resterà cieco, si fermerà a Damasco tre giorni, per essere curato nella sua cecità da un cristiano. Diventerà in seguito l’apostolo per eccellenza, il grande comunicatore dai tre requisiti (visione, vocazione, missione), patrono dei giornalisti e della verità che usa i mezzi della comunicazione sociale.
La conversione di Saulo secondo Caravaggio avviene di notte; oltre l’oscurità che aumenta il [i]pathos[/i] del quadro, il cielo stellato di gennaio poiché, anche lì, le stelle, il 25 gennaio, si convertono, come l’apostolo.
Una è Sirio: la più splendente dell’intero firmamento, dopo il sole la più rilucente, casa degli dei.
Oggetto di culto e venerazione. “[i]Ardente[/i]” nel termine greco, “[i]Guida[/i]” la chiama Plutarco, “[i]Stella dell’aurora[/i]” Omero; freccia per i persiani, appartenente alla costellazione dal Cane Maggiore, inconfondibile, dannosa per i raccolti dicevano i greci e portatrice di epidemie, bianca come un diamante, dallo scintillio brillantissimo stella magica nell’astrologia medioevale, tramonta per prima seguita da Procione, un’altra stella, più piccola, ma della costellazione del Cane Minore, che infine la segue.
Le due stelle sono anche chiamate il ricco e il povero, si rincorrono, si parlano, provano a dialogare tra loro, e se scendono insieme con il sereno portano fortuna: “[i]Si farà tutto il raccolto[/i]” come vuole la leggenda della “Notte di San Paolo” che nasce e abita lì, attraversa tutte le stagioni, e si racconta a Roio, una frazione del comune dell’Aquila. La grande va avanti ed è il ricco; la piccola sta dietro tutto l’anno ed è il povero. Quando arriva il mese di maggio la piccola va avanti e la grande la segue. Significa che nel mese di maggio, per una volta l’anno, il ricco rincorre il povero per la mietitura: “[i]Vieni che ti faccio lavorare![/i]”.
Il povero però gli risponde: “[i]Se vuoi, mietilo tu il grano, perché io voglio lavorare tutto l’anno[/i]” nell’allegoria della scenica calotta stellare, mitologica, che per almeno tremila anni ha regolato il [i]calendario dei desideri degli uomini e delle cose[/i], ma che solo la magia delle leggende sapeva riscattare.
[url”Torna al Network Viaggio&Viaggi”]http://ilcapoluogo.globalist.it/blogger/Vincenzo%20Battista%20-[/url]