
di Vincenzo Battista
La Bona dea latina (dal greco [i]Agathé[/i]), venerata divinità pagana della fecondità, è forse per assimilazione ed elaborazione diventata Sant’Agata nella seconda metà del III secolo, sotto l’imperatore Decio; la giovane martire, narra la Legenda Aurea, dai seni recisi su un piatto, dalle tenaglie in mano, dalla torcia e dalla candela accesa (simbolo di potenza contro il fuoco), dal corno e unicorno (simbolo di verginità), e soprattutto con la palma del martirio.
{{*ExtraImg_96639_ArtImgRight_278x448_}}Appare così nella pittura che la rappresenta dal Quattrocento al Seicento: seminuda, nell’atto di subire le torture, il supplizio del seno reciso, un vero e proprio attributo iconografico della santa testimone di una fede antica, dagli occhi neri e i capelli scuri per rispecchiare i tratti della sua terra, la Sicilia, da cui il culto si propagò in regioni e contrade più lontane nella festività del 5 febbraio, mentre la tradizione popolare elaborò rituali e forme di devozione divenuti veri e propri cerimoniali, protocolli, regole condivise, formulari dalle comunità locali che si raccolgono, anche dall’alba al tramonto, in particolari modelli di memoria della devozione, d’intensa religiosità, che sfiora la venerazione.
Accade così che le radici di tale culto assumano rilievi inconsueti. Accanto alle liturgie religiose (messe e suffragi) i simboli della martire Agata emergono incontrastati e si predispongono, allevati dalla comunità crescono, dall’alba al tramonto, nel centro di Castelvecchio Subequo, dove per la rappresentazione della cultura popolare in suo onore si preparano pani particolari, che lievitano vicino al camino o alla stufa.
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“[i]Cresce e riposa[/i]”, il pane, al buio, sorvegliato e sfiorato nelle prime ore del 5 febbraio (martirio di San’Agata) dal gesto di una mano, un segno di croce che passa sull’impasto dolce, prezioso, avvolto nei panni di cotone.
La metamorfosi è in atto: presto, staccata in pezzi, la pasta di pane dolce assume una figura, si modella a forma di seni, allineata su una “spianatora” in legno, pronta a essere trasformata nella cottura nei forni di “San Rocco” e “Baglietto” nell’immediata periferia di Castelvecchio.
La protettrice delle partorienti, così chiamata la santa, corrispondeva al dono del latte materno, background di una società rurale ottocentesca povera e privata di assistenza, con altissima mortalità infantile. E questo skyline della devozione si mostrerà fino alle ultime luci di questo giorno, poi il buio, l’oscurità metafisica avvolgente, ma che si popola di ombre, alla fonte di “Macrano”, quando inizia il pellegrinaggio che segna l’epilogo dei pani da bagnare portati dalle donne.
{{*ExtraImg_96641_ArtImgLeft_300x426_}}L’incontro, il rito antico, la fecondità, in questo crocevia di spazio sacro, acqua sorgiva, pane, e autocelebrazione: [i]topos[/i] della mente, geografia devozionale, luogo della memoria lunga. E torna l’acqua, che nelle culture arcaiche è sempre stata elevata a simbolo di fecondità, di trascendenza; l’acqua a cui spesso sono stati associati eroi-fanciulli dall’eterna giovinezza, ha mitizzato i luoghi fisici nel mondo greco-romano, ma che con il cristianesimo ha saputo trascinare, anche intorno a noi, i suoi miti, ancora non globalizzati.
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