
di Vera Lazzaro
Sono passati 4 anni da quella notte d’inferno. Una di quelle notti in cui ti senti inutile, in cui vorresti sparire per sempre.
Il 6 aprile 2009 avevo poco più di 8 anni, mia sorella quasi 3.
Il 5 aprile, il giorno prima, eravamo andati al mare, e durante la scossa delle 23 stavamo guardando un film di Indiana Jones.
Non ho sentito la scossa di mezzanotte, ma mamma sì.
Poi, alle 3.32, Lei.
Prima il boato, poi il rumore dei libri che cadevano (primo fra tutti quello delle fiabe di Hans Christian Andersen), infine la scossa.
Mamma si è alzata, mi ha preso per mano e mi ha portata nel corridoio (anzi, meglio dire trascinata), con la luce accesa. Mi sembrava accecante.
Mamma mi ha lasciata e io, confusa, ho continuato a correre verso la camera matrimoniale.
Quando sono arrivata mamma mi ha spinta sotto al letto dove, per colmo di sfortuna, ho dato una bella botta alla testa.
Ancora più confusa di prima, sono uscita dal nascondiglio e mi sono seduta accanto a papà e a mia sorella che, se possibile, tremava più di me.
In realtà, non ricordo se tremavo. Non capivo cosa stesse succedendo, avevo paura dell’ignoto, di quello che non conoscevo che, tutto ad un tratto, mi si avventava contro.
Non so perché, ma mi sentivo come il topo in trappola con il gatto davanti. Vicino alla fine.
Invece la fine non è arrivata.
Mamma faceva i salti mortali per mettere vestiti e cibi vari (non so come si faccia a pensare al cibo quando si è prossimi alla morte, ma vabbè) in una borsa. La conoscete, è pure tornata indietro per prendere due cose “utilissime”: la piastra per capelli e il profumo estivo.
Mi ha ordinato di mettere un paio di scarpe da ginnastica e di prendere due bottiglie d’acqua, quindi siamo corsi giù sperando che le scale non cedessero: tutto continuava a tremare.
Fortunatamente, il mio presagio del topo in trappola era sbagliato. Il cancello elettrico, quello che sarebbe stato per noi la trappola mortale, era aperto. Siamo saliti in macchina.
Per strada c’erano tantissime persone.
Sempre più confusi siamo andati in giro per la città, ma abbiamo trovato solo miseria e disperazione.
Continuavo a ripetermi che non era vero, che era un incubo, ma quando abbiamo deciso di andare a casa nostra, al mare, a Tortoreto, ho capito che era l’amara verità.
Da quel giorno ho cambiato tantissime scuole, con altrettante città. Pescara, Montecompatri, poi di nuovo L’Aquila.
Per me, in fondo, il terremoto non è stato solo una piaga, ma anche un’occasione per ricominciare, farsi nuovi amici (che, nella vecchia classe, non avevo) e andare avanti.
Mi restano nel cuore la maestra Annalisa e la maestra Dina. Non le dimenticherò mai.
Ho conosciuto decine di altri ragazzi terremotati, e il loro racconto della notte tra il 5 e il 6 aprile 2009 era molto simile al mio.
Confusione, paura dell’ignoto, forse anche un po’ di rabbia per l’esser stati svegliati nel cuore della notte, sorpresi in un momento così nudo.
Oggi, 6 aprile 2013, a 4 anni dal terremoto, sono stata al cimitero a vedere le tombe delle vittime.
Quella del piccolo Francesco, uno degli amici di mia sorella, mi ha fatto tanto male.
Rabbia e odio nei confronti di chi aveva costruito i luoghi dove abitavano quelle 309 persone che delle loro case si sono fidate. Non si aspettavano questo tradimento da parte loro. Il tradimento non te lo aspetti mai.
Se quelle case fossero state costruite con materiali adatti, forse adesso Francesco e le altre 308 vittime sarebbero ancora vive, qui con noi, a correre nei prati, andare a scuola, guardare il cielo azzurro. Invece no. Non ci sono più. Sono morti, e la morte dura per sempre.
Ma quanto dura questo “per sempre”?
Inoltre, c’è il grande dubbio che mi sono accorta di avere il 7 aprile 2009.
Potrei essere io quella morta. I 309 morti, potrebbero essere quelli ancora vivi.
Potrei essere io quella che viene pianta, non Francesco e la sua famiglia. In quella sua stessa tomba potrei esserci io, Vera Lazzaro, o chiunque altro.
E’ possibile sapere, quindi, se siamo vivi o morti?
Temo di no, ma ho raggiunto un patto con me stessa per non impazzire.
Vivere se sono viva, o vivere la morte se non ci sono più.
Se sono viva vivrò assistendo alla ricostruzione della mia città, se sono morta invece potrò solo sperare in un futuro migliore per gli abitanti di Onna, Fossa, L’Aquila.
Per finire, la mia proposta.
Accelerare la ricostruzione per non far vedere le macerie e la tristezza di oggi ai bambini e ragazzi di domani.
Forse L’Aquila è morta, ma nulla ci vieta di vedere una nuova alba, quella della NUOVA L’Aquila.