
di Christian Colombo
Non so dare un titolo a quello che voglio scrivere.
Per la prima volta, io che devo sempre tagliare, per le troppe parole che mi girano nella mente.
Scrivo da una città di sopravvissuti, dove è avvenuto qualcosa di naturale, qualcosa che ha portato via 309 anime alla loro quotidianità, ai loro cari, alle vite.
Qualcosa di non pilotato, se non nelle responsabilità di chi ha costruito le case in cui vivevano.
Ieri è successo qualcosa di grave, di atroce, di pilotato.
Terrore. Terrorismo. Paura.
Quale titolo può racchiudere l’agonia senza ragione?
Ci sono padri nella mia città, e madri, che piangono un figlio morto per un terremoto.
Ma ora sento di un bimbo di 8 anni (o 6 a seconda delle testate) che E’ MORTO.
Sento di 10 o più persone che hanno perduto le gambe, amputate.
Sento il male folle, irragionevole, di quei pochi secondi che cambiano la vita.
Ma, questa volta, non perché lo vuole la natura.
Da pochi mesi ho scoperto cosa vuol dire correre.
Non è una sensazione che si può raccontare, devi provarla.
Tutti possono capire la definizione, tutti possono capire l’azione, i benefici, ma non le sensazioni.
Solo chi ha provato, tanto, contro vento, pioggia, neve, sole, dolori, sudore, stanchezza, sa cosa sia realmente correre.
In questo universo parallelo ho scoperto persone fatte di passi, uno dopo l’altro, senza mai fermarsi, e di profondo dolore, quando questi passi sono costretti ad arrestarsi anche solo per pochi mesi, piccoli infortuni, tanto che si vive quasi una piccola depressione.
Ed ora ci sono dieci persone, o più, che non avranno più gambe per correre.
Non solo per passeggiare, per accompagnare il proprio bambino nelle prime precarie uscite in bicicletta, per camminare fino all’appuntamento con la propria ragazza, per portare il proprio cane a spasso, per fare la spesa. No.
Loro che hanno deciso di farsi, in molti casi, migliaia di chilometri, solo per poter presenziare ad uno storico evento come la Maratona più antica del mondo, non potranno più correre.
Questa cosa mi lascia sgomento, e forse è proprio quello che voleva chi ha armato le bombe, chi non capiva il valore di una vita e di un passo, pensando che il proprio messaggio di distruzione, di rabbia, fosse più importante di tutto.
Di vite umane, di passi, di gambe.
Un messaggio vigliacco, che non cercava un confronto, ma solo l’attenzione data dalla paura, dall’orrore, dal dolore.
Domani indosserò la mia tuta, e una volta ancora andrò a correre, per tutti quelli che non hanno più gambe o vita per farlo.
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