A Patrizia

18 aprile 2013 | 02:09
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A Patrizia

di Raffaella De Nicola

Dicono che siano sei le ore che trascorrono prima che l’anima si separi dal corpo.

Per sei ore ho vegliato la terra e parlato all’aria, ininterrottamente, con l’ansia di chi ha il tempo marcato, per dirti le ultime parole che avresti potuto sentire.

Ho fatto finta di niente. Mi sono comportata come se non fosse l’ultima volta che parlavo con te.

Ti ho raccontato come sempre della giornata, del colore che aveva avuto, delle stupide discussioni familiari, del vestito che avevo comperato e di come desideravo lo vedessi.

Sapevo che non potevi più rispondermi ma confidavo, in quelle sei ore, che la forza dell’aria ti portasse le mie parole, che potesse dirti quanto era bello stare con te e di quanto fosse impensabile separarci.

Ci siamo scelte, dopo tanti anni passati guardinghe, temperamenti forti che si temono, per poi crollare senza difese come chi agogna un’amicizia vera e finalmente la trova, la onora ogni giorno, in un’empatia perfetta, liberando senza più pudore il crogiolo barricato nelle nostre scorze, pensando di avere tutto il tempo a disposizione.

Tu sintesi di una femminilità appassionata, antica moderna giovane vecchia tenera dura, mai banale, che traslava, dietro ogni gesto ed ogni singola parola, una dimensione completa e complessa di affetti, l’attraversamento pieno, senza filtri, di una quotidianità semplice, di dolore e pace ricostruita, il tuo dentro e il tuo fuori all’unisono, il destino e il libero arbitrio a contendersi ambiti di vita.

Signora di un feudo di affetti, con mura umane di un incastellamento protettivo senza le quali siamo orfani.

Viva, la vita presa a mozzichi, talmente viva che è inconcepibile pensarti senza movimento, hai ammaliato con la tua energia persino le ombre che ti hanno voluto a tutti i costi, in una trappola micidiale che ti ha teso il destino, tu come un Icaro che si avvicina, senza presunzione, al sole, per curiosità genuina e candida di quella luce.

Beffardo questo aprile, con l’affronto dei mandorli in fiore, che si apre ogni anno alla vita ma porta nuovamente orribile morte.

21 grammi pare che pesi l’anima di una persona che muore

21 grammi di consistenza diversa, però.

Pieni i tuoi, umanamente importanti, densi, corposi come chi si sporca le mani con la vita degli altri, dono raro e meraviglioso, che hanno aggregato, costruito, con tracce sicure e salde, l’eredità cospicua per chi è rimasto, come la bellezza che hai tramandato ai tuoi figli.

Io so solo che da domenica vedo il ventre scuro delle nubi, la pioggia salire al cielo, la neve risucchiata dall’alto, il sole che fa buio, gli alberi capovolti, la luna nella terra, le stelle che fanno ombra, il vento che tormenta le viscere del mondo, la vita meno interessante.

Nel silenzio innaturale della tua voce sono invidiosa della terra che ti tiene compagnia.

Grevi e soli i miei 21 grammi ora, sommersi dal vuoto inaccettabile ed inconsolabile della tua perenne assenza, in una foiba carnale che trattiene, con catene di dolore, l’onore di esserti stata amica e la dolcezza della memoria che mi fa sentire una tua presenza diversa, assurda, non troppo lontana, forse,

ma piena di te,

cara, carissima, amica mia.