
di Fulgo Graziosi
In un Paese civile – dove si respira aria di democrazia, poggiata su una Costituzione tanto vituperata, ma altrettanto fatta bene – non dovrebbe essere consentito riconsegnare le insegne istituzionali di sindaco subordinatamente ad una possibile ed eventuale concessione di finanziamenti per la ricostruzione della città.
In una forsennata protesta dai risvolti etici molto discutibili – non tanto per i contenuti, quanto per la forma – il sindaco ha posto in atto due distinte azioni. Con la prima ha depositato presso la portineria del Quirinale le “insegne” di primo cittadino. Con la seconda ha dato luogo ad una azione, unica al mondo, con la quale ordina la rimozione del vessillo nazionale dal suo ufficio, dal Comune e da tutti gli edifici pubblici della città, scuole comprese.
A questo punto un serio dubbio comincia a serpeggiare tra gli aquilani e gli abruzzesi, soprattutto in relazione alla tempistica con cui si sono svolte le azioni innanzi citate. Cerchiamo di analizzare il tutto, arrivando, per gradi, a dipanare la intricata matassa.
Ci rifacciamo alle dichiarazioni del sindaco, senza aggiungere nulla di più. «Riconsegnerò nelle mani del Presidente Napolitano la fascia di sindaco perché sono stato lasciato solo». Dopo qualche giorno viene consegnato alla stampa un comunicato di conferma dell’iniziativa, nel quale viene riportato anche il contenuto di una missiva di accompagnamento, forse nel vano tentativo di giustificare l’operazione, di cui anche il sindaco iniziava a dubitare circa la reale opportunità. Evidentemente, il primo cittadino ha dovuto reputare, da solo o in compagnia, che la riconsegna della fascia non avrebbe potuto generare gli effetti sperati. Perciò nei giorni immediatamente successivi ha dichiarato pubblicamente che avrebbe posto in essere «iniziative eclatanti». Puntuale, come non mai, il sindaco ordina la rimozione della bandiera tricolore dagli uffici pubblici e dalle scuole della città capoluogo di Regione. Errore gravissimo sotto ogni profilo, trascurando deliberatamente quello prettamente legale.
Con questi esempi, quale fiducia dovrebbero avere i cittadini, in particolar modo i giovani, delle pubbliche istituzioni e degli uomini che con estrema presunzione si arrogano il diritto di saper gestire e amministrare la cosa pubblica? Spesso, quando assumono atteggiamenti del genere, i responsabili ignorano le più elementari regole di civile comportamento. Non solo. Ignorano anche delle lapalissiane regole di fisica. Infatti, proprio per effetto di queste regole, tutti – ma come vedete non siamo tutti – avremmo dovuto ricordare che «ad ogni azione corrisponde una reazione uguale e contraria».
Poiché il sindaco ha ignorato il principio, ha provveduto il Prefetto a ricordarglielo, invitandolo elegantemente a desistere dall’iniziativa. Colpito pubblicamente nell’orgoglio, si è stizzito e ha anche reso noto che avrebbe continuato sulla strada intrapresa. Di qui, nell’esercizio delle proprie funzioni, alle quali non si può sottrarre, è arrivata la precisa diffida ad adempiere, pena la rimozione. Siamo arrivati finalmente al dunque. Al punto in cui sorgono palesi dubbi.
Siamo fermamente convinti, come noi lo sono quasi tutti i cittadini aquilani, che il Prefetto non abbia la necessità di ricorrere alla rimozione o alla sospensione del Sindaco. Lo ha già fatto, da solo, quando ha depositato al “Colle”, nella casa del “Padre”, le “insegne” di Sindaco. Da quel momento, siamo convinti, il Sindaco è tornato ad essere un semplice cittadino. Perciò l’ordine di rimozione del “tricolore” dai pubblici uffici diventa perseguibile ad ogni effetto di legge, soprattutto perché diramato da un individuo nella semplice veste di cittadino. A questo punto, fiutando le inevitabili conseguenze, il Primo cittadino ha cominciato a fare la vittima, a dichiarare che vogliono che gli prenda un colpo e così via.
Occorre cambiare strategia. È necessario coinvolgere il popolo dei fedeli. Questo termine fa tornare alla mente del sindaco un romanzo di Guareschi: “Don Camillo”. Sollecita i centri della memoria e realizza con estrema rapidità. Alla stessa stregua della processione di Don Camillo, pensa ad una “marcia su Roma” con il popolo, questa volta senza “carriole”, allo scopo di richiamare le attenzioni del Governo, dei suoi compagni di partito. Anche questa volta gli “untori” della rivolta non fanno notare al Primo cittadino che, durante la processione, Don Camillo restò solo con la sua Croce, seguito da un solo cane. Potrebbe essere una circostanza credibile, sulla quale occorrerebbe riflettere con estrema pacatezza.
A questo punto il primo cittadino dovrebbe veramente essere assalito dall’amletico dubbio: “Sono o non sono ancora Sindaco”? Per scioglierlo ha due sole possibilità. Se pensa ed è convinto di essere ancora sindaco, sarebbe opportuno rivestirsi di carattere e indossare la fascia per discutere dialetticamente, in perfetto idioma italiano, le complesse problematiche della ricostruzione della città e di tutti i Comuni del cratere sismico. Questo dovrebbe essere il vero ruolo di un sindaco del Comune capoluogo di Provincia e di Regione. Se, poi, dovesse addivenire al convincimento di non essere più sindaco per effetto della riconsegna ufficiale delle “insegne”, sarà bene dare una dimostrazione di coerenza, se si vuole veramente dare un senso ad una civile protesta che potrebbe essere veramente ascoltata solo se viene mondata di quel sapore populistico a cui si vuole fare ricorso a tutti i costi.