
Mario Spallone il provocatore: «Riapriamo le case chiuse».
Così intendeva combattere la prostituzione da strada. Spallone che rinnega Torlonia: «Riallaghiamo una parte del Fucino». Tanto per incrementare un po’ il turismo. Spallone il miliardario comunista, fedele prima alle ideologie di Stalin (per un periodo dalla sua televisione faceva trasmettere i telegiornali dell’allora Unione Sovietica) e poi a padre Pio (invocato in più di una competizione elettorale).
Novantacinque anni senza mai rallentare. Il padre Rodomonte, maestro elementare a Lecce nei Marsi, lo voleva artigiano e lo mandò ad apprendere il mestiere nella bottega del maestro Zurlo, costruttore di casse da morto. Alla prima consegna, il ragazzino Mario sbagliò la misura della bara. Più corta per quel cliente. Meglio cambiare.
La madre Gina lo mise su un carretto per il trasporto della legna e lo mandò a studiare ad Avezzano. Liceo classico. Qui avvenne il battesimo col Partito comunista. Gli studi proseguirono a Roma. «Sono stato antifascista prima e partigiano poi» amava ripetere quando raccontava le sue storie.
Il 10 dicembre del ’39 l’antifascista Mario Spallone fu arrestato. «Fu il passaggio dalla politica teorica a quella vissuta sulla propria pelle» confessò. La laurea arrivò due anni più tardi. Medico. «Il mio primo cliente fu un morto» ha scritto in uno dei suoi libri «don Casimiro, parroco della basilica maggiore di San Giovanni in Laterano.
Dovevo iniettare della formalina per conservare il corpo fino alla sepoltura. Il corpo cominciò a gonfiarsi, saltarono lacci, cinghie e bottoni. Uno sfacelo». Una sera dell’estate del ’44 l’incontro con Palmiro Togliatti al teatro Brancaccio di Roma.
Poco dopo divenne medico del Migliore, ma più in generale fu il camice bianco ufficiale dei comunisti italiani e non solo (si rivolgevano a lui anche dirigenti e dipendenti delle ambasciate dell’Europa orientale). Il suo rapporto professionale e personale col gruppo dirigente del Pci fu tale da permettergli di installare un ambulatorio al piano terra delle Botteghe Oscure, per le iniezioni e le ricette d’urgenza; di ricevere e smistare molte domande di militanti che volevano farsi operare in Urss; di trasformare una delle sue cliniche romane, Villa Gina, in vera e propria clinica del Pci.
Aiutò Togliatti e la Iotti nel periodo in cui la loro relazione era clandestina. In Russia rese meno lugubre il complesso di Bakvhika, metà ospedale e metà casa di riposo. Qui dove andavano a rilassarsi i leader dell’allora Pcus e dei partiti comunisti europei. Spallone introdusse due novità: bocce e tressette. «Roba da mille e una notte» commentò. A Roma è stato capostipite di una dinastia – una famiglia per sei cliniche e mille dipendenti – imbattendosi anche in vicende giudiziarie. Fu accusato di un certificato taroccato riservato al faccendiere Flavio Carboni e finì indagato per la fuga dalla sua Villa Gina di Maurizio Abbatino, pentito della Banda della Magliana. E per alcuni fu anche spia del Sifar e della Cia.
«Tutte fandonie» le ha sempre bollate Mario Spallone, uno dei pochissimi italiani ammessi ai funerali di Raissa Gorbaciov. Fortissimo il suo rapporto con la Marsica. Sindaco a Lecce nei Marsi per 15 anni, poi ad Avezzano fino al 2001. A lungo legato anche alla squadra di calcio della città. Ad Avezzano rilevò TeleMarsica da Nicola Di Lorenzo e la trasformò in Atv7.
Da sindaco curò la trasmissione televisiva “Telefono aperto” condotta da Stefano Pallotta. Spallone raccoglieva le richieste dei cittadini. Tra lampioni da cambiare o giardinetti da sistemare, il successo a ogni puntata alimentò anche i consensi. Una chiamata su tutte: «Professore, a San Pelino la nostra strada è al buio. Se qualcuno ti arriva alle spalle e ti dà una botta in testa non lo vedi». E lui pronto: «Ma lo senti».
Spallone, almeno fino a quando la sua famiglia non è stata travolta dallo scandalo degli aborti illegali, è stato un personaggio amatissimo. Ad Avezzano propose la riapertura delle case chiuse – se ne parlò per giorni in tutta Italia – era pronto a riportare un po’ di lago nel Fucino. E contro le stragi del sabato sera indicò la sua soluzione: chiudere le discoteche alle 22.
La musica la mise al cimitero di Avezzano. Un impianto che diffondeva brani classici in stereofonia, sul modello dei camposanti sovietici (esperimento già compiuto nella sua Lecce). Portò tutta la giunta in ritiro in un convento a Cappadocia. Fece sentire a lungo il fiato sul collo degli assessori, spesso svegliati da telefonate nel cuore della notte. Lottò per non fare rimuovere la Bacheca dell’amore dagli uffici della Procura.
Spazio che in via Corradini ad Avezzano, fu utilizzato dagli adolescenti per scambiarsi frasi d’amore (prima dell’avvento di facebook e twitter). A lui i ragazzini dedicarono un messaggio e un cuore: «Mario, sei uno di noi».
di Roberto Raschiatore per Ilcentro