
di Gioia Chiostri
«La rappresentazione delle donne attraverso il linguaggio costituisce ormai da molti anni un argomento di riflessione per la comunità scientifica internazionale, ma anche per il mondo politico e, oggi, sempre più anche per quello economico.
In Italia numerosi studi, a partire dal lavoro “Il sessismo nella lingua italiana” di Alma Sabatini, pubblicato nel 1987 dalla presidenza del Consiglio dei ministri, hanno messo in evidenza che la «figura femminile viene spesso svilita dall’uso di un linguaggio stereotipato che ne dà un’immagine negativa, o quanto meno subalterna rispetto all’uomo», queste le prime righe di un articolo che affonda parole taglienti come coltelli nella pessima considerazione della donna in società.
In italiano e in tutte le lingue che distinguono morfologicamente il genere grammaticale maschile e quello femminile, come il francese o il tedesco, la donna praticamente non risulta, visto che è il genere grammaticale maschile che viene usato tanto in riferimento a donne quanto a uomini (gli spettatori, i cittadini). Senza contare che ciò che compare sul vocabolario della lingua italiana è sempre è solo la forma maschile per gli aggettivi. Non c’avevate mai pensato? Frequentissimo anche l’uso della forma maschile anziché femminile per i titoli professionali e per i ruoli istituzionali riferiti alle donne: non si dice ad esempio sindaca o ingegnera, ma sindaco e ingegnere, anche se, a vestire i panni ‘del potere’, è spesso una lei.
«Forti richiami a rivedere questa tradizione androcentrica sono arrivati da diversi settori della società, dall’accademia e dalle istituzioni di molti paesi europei, per esempio la Confederazione Svizzera – si legge nell’articolo – dove l’italiano è fra le lingue ufficiale, ha pubblicato recentemente una Guida al pari trattamento linguistico di donna e uomo nei testi ufficiali della Confederazione per tentare di arginare il problema linguistico. In Italia, invece, la direttiva Misure per attuare parità e pari opportunità tra uomini e donne nelle amministrazioni pubbliche ha rinnovato qualche anno fa, di preciso nel 2007, la raccomandazione a utilizzare un linguaggio non discriminante in tutti i tipi di documenti e ad avviare percorsi formativi sulla cultura di genere come presupposto per attuare una politica di promozione delle pari opportunità».
Evidentemente il blocco linguistico che non si riesce a dipanare, ha legami molto stretti con aspetti sociali e culturali.
E veniamo all’Italia: l’accademia della Crusca ha collaborato con il Comune di Firenze al progetto Genere&linguaggio e alla pubblicazione delle prime linee guida per l’uso del genere nel linguaggio amministrativo. Eppure, nella comunicazione istituzionale o in quella quotidiana, emergono ancora delle resistenze. Il linguaggio, di fatti, difficilmente si adatta alla nuova realtà sociale, che marcia assieme al progresso (culturale, si spera).
«Donne ormai diventate professioniste acclamate e prestigiose, salite ai posti più alti delle gerarchie politiche e istituzionali, vengono definite con titoli di genere grammaticale maschile: il ministro Elsa Fornero, il magistrato Ilda Bocassini, l’avvocato Giulia Bongiorno, il rettore Stefania Giannini», una vera assurdità, purtroppo assai acclimata.
Un punto interrogativo sorge spontaneo: perché non si muta, allora? Gli esperti sottolineano o la presunta bruttezza delle nuove forme (ministra o ingegnera proprio non piacciono), o la convinzione che la forma maschile possa essere usata tranquillamente anche per riferirsi all’universo femminile. «Ma non è vero – argomenta la docente – perché termini come maestra, infermiera, modella, cuoca, nuotatrice, oltre ad essere assai diffusi, non suscitano alcuna obiezione».
Come non deliberare alla luce dei fatti, che non di ragione d’economia linguistica ma di retroterra culturale si tratta? «I meccanismi di assegnazione e di accordo di genere – spiega nell’articolo la studiosa – giocano un ruolo importante nello scambio comunicativo e meriterebbero di essere conosciuti anche al di fuori della cerchia accademica per fugare la convinzione, diffusa, che usare certe forme femminili rappresenti solo una moda. È indispensabile che alle donne sia riconosciuto pienamente il loro ruolo perché possano così far parte a pieno titolo del mondo lavorativo e partecipare ai processi decisionali del paese».
Non servono altre parole da aggiungere. È chiaro che la donna si trovi immersa in un mare magnum al maschile, dove il lavoro tende ad essere sempre declinato con il termine uomo, e dove ancora non si accetta che una Lei può dirigere e governare. Aiutiamo la lingua a cambiare, quindi, perché anche il vocabolario italiano diventi finalmente lo specchio di una società equa e affatto discriminante. E cambiando il signficante chissà che non cambi anche la cultura in esso racchiusa.