
di Raffaella De Nicola
E’ una voce autorevole, la sua, nobel per la letteratura, muove i personaggi di “Addio alle armi”, lo spirito del cappellano abruzzese e la nostalgia, in trincea, per la sua terra. Scrive Hemingway: “[i]Aquila was a fine town. It was cool in the summer at the night and the spring in Abruzzi was the most beautiful in Italy – Aquila era una città fantastica. D’estate la notte faceva fresco e la primavera degli Abruzzi era la più bella d’Italia . . .[/i]”.
E anche Nietzsche, con il pensiero di Zarathustra, che fugge, vuole andare a L’Aquila “[i]l’antitesi di Roma, ricordo di un ateo e di un anticlericale[/i]”, Federico II, il grande imperatore. Prima, è il 1300, Boccaccio parla di frontiere, rappresenta il limite estremo, il confine “[i]Più in là che Abruzzi[/i]” luogo appartato delle quattro maestà che i viaggiatori del grand tour incontravano: Gran Sasso, Maiella, Adriatico, lago Fucino, per arrivare nella terra selvaggia ed arcaica dei grandi silenzi. Silenziosa nelle testimonianze di Giorgio Manganelli, la città più abruzzese d’Abruzzo, L’Aquila, si svela nello sguardo sottile del giornalista nei reportage, interiori ed intimi, di Paolo Rumiz su “Repubblica”.
“[i]Solida sembrava quando l’ho vista[/i]” è l’oggi, Toscani, ma parla di ieri, nella sua consueta provocazione fotografica e linguistica, l’appella meretrice, traditrice, e riaccende un’appartenenza, in noi, annebbiata.
L’Aquila, in realtà, la capisci d’inverno. E’ un viaggio complesso, verticale, dove ti muovi, fra assenze, in un reticolo di memorie schive e appartate, scontrose e gentili, come pietre isolate e dure, la superba geometria delle chiese e delle vie di una città che non sa essere diversa da se stessa, dove i luoghi parlano un linguaggio introverso dalle mille polifonie. Ferrigna, aspra, difficile capirla, un po’ meno amarla, un tessuto urbano che non a caso è intrecciato da forti pendii e piazze che si svelano all’improvviso come una ragnatela che imprime la propria forma nel carattere endemico della comunità. Chiuso.
Bellezza non canonica, singolare, non appariscente, il Grand tour moderno si inoltra ora, a fatica, nel vuoto della ricerca di luoghi, percorsi, angoli, tracce e si imbatte nello scempio dell’uomo iniziato già prima del sisma, arriva alla bellezza della facciata di Collemaggio e allunga lo sguardo alla bruttezza delle opere degli ultimi anni, al terminal, incomprensibile porta d’accesso alla città, inadeguata a sostenere le fatture eleganti, anche se ferite, della città storica in un teatro di sporcizia ed incuria che arriva all’altra di porta d’accesso, da Roma, con pensiline, spazi trascurati e non puliti. E’ L’Aquila (traditrice?) ad essere stata tradita da chi ha mancato di fare bene e bello violando la tradizione di austera eleganza dei padri fondatori, abbrutendo un territorio ambizioso nella culla della propria storia. Uomini moderni hanno originato un tempo disadorno di bellezza, selvaggio, ma in modo diverso dall’ammirato selvaggio dei viaggiatori dell’800, in un deserto di testimonianze orgogliose che ha trasformato la voce dei palazzi e dei cortili, gemellati con la luce del Gran Sasso, in un silenzio inascoltato, colmo di solitudine civile e degrado pubblico, che non racconta più nessuna storia.