
[i]di Ezio Pelino*[/i]
Venerdì 27 agosto 1943. Una giornata come un’altra, anche se le preoccupazioni per la guerra occupano la mente di tutti. Gli Alleati da oltre un mese sono sbarcati in Sicilia e avanzano senza trovare adeguate resistenze. Il ventennio fascista è finito. L’onnipotente e tonitruante capo è stato arrestato ed è prigioniero in luoghi segreti. Governa Badoglio. Il Paese è ad un bivio. Il futuro è il più incerto e oscuro che si sia mai vissuto.
All’improvviso, alle ore 11.15, l’agghiacciante ululato delle sirene rompe il silenzio. Il rombo degli aerei alleati raggela il sangue a tutti. Vengono da Raiano. L’obiettivo, si capirà di lì a poco, è la stazione ferroviaria, nodo importante per i suoi collegamenti a raggiera, per Roma, Napoli, Pescara, Terni e la grande fabbrica di esplosivi Dinamite Nobel di Pratola Peligna con i suoi 3000 operai.
Passeggeri e ferrovieri, come formiche impazzite, corrono ad un possibile riparo. E’ cominciata la guerra in casa. E’ la prima volta che le nostre donne e i nostri bambini sono sotto il fuoco delle bombe. E’ l’apocalisse. Centinaia di persone accalcano la stazione. Sono i passeggeri provenienti da Roma e da Pescara. Il rifugio meno insicuro appare il vicino boschetto, proprio dirimpetto alla stazione, che quanto meno sembra nascondere e proteggere. E’ invece il luogo della mattanza. Pochi e i più giovani riescono a raggiungere la lontana galleria, le ”Bocche di Roma”, e salvarsi.
Le bombe portano morte e distruzione. Saltano gli impianti e le officine, i treni bruciano. I vagoni cisterna carichi di cloro per la Dinamite Nobel, sprigionano gas che ammorbano l’aria e renderanno più difficili i soccorsi. La flotta aerea è terrificante, 69 “Fortezze volanti”, i più grandi bombardieri dell’aviazione alleata, e una settantina di “Liberator”. Sulla stazione vengono scaricate 153 tonnellate di bombe, un terzo sullo stabilimento militare di Pratola. Non si è mai saputo il numero esatto dei morti e ancor meno dei feriti. Si parla di 100/170 vittime. Come sarebbe stato possibile fare un censimento attendibile in quelle drammatiche circostanze con tante vittime forestiere e con corpi irriconoscibili o del tutto disintegrati dalle esplosioni? Ciò che conforta è che la tragedia suscitò una mobilitazione generale di medici e infermieri di tutta la regione presso l’ospedale dell’Annunziata. I testimoni raccontano di una ininterrotta striscia di sangue che correva dalla stazione all’ospedale, collegando il luogo dove si era consumata la ferocia più belluina con quello dell’abnegazione e della possibile salvezza.
Tante sono le testimonianze dei sopravvissuti. Molte sono state raccolte da studenti e docenti del Liceo scientifico di Sulmona e documentate nel libro “[i]E si divisero il pane che non c’era[/i]”. Ma , forse, la più toccante è quella di un bambino. Carlo Angelone aveva sei anni. Racconta con gli occhi di allora lo scoppio di quel maledetto ordigno che uccise in un attimo i suoi fratellini, i cugini, le zie, un compagno di giochi, e con loro la sua gioia innocente. Correvano, disperati, per raggiungere la salvezza alle “Bocche di Roma”. Scrive con una drammaticità assoluta nel suo recente libro autobiografico “Le strade bianche”: ”[i]Con boati assordanti caddero le prime bombe. Le donne cominciarono a strillare e a pregare, i bambini a tremare. Un fumo acre invase la campagna. Un nugolo di polvere e di fumo aveva coperto cielo e terra e gli impediva di distinguere le persone che si trovavano vicino a lui. Sentì un forte odore di bruciato e, appena il fumo e la polvere si diradarono, vide, con raccapriccio, lo scempio di quei corpi sparsi intorno a lui. Quando vide l’espressione dei visi e le pose innaturali che avevano assunto i suoi cari, capì con sgomento che qualcosa di terribile era successo. La terra era entrata dovunque: nella bocca e negli occhi di tutti, tanto che riusciva difficile distinguere una persona dall’altra. Le urla laceranti delle zie che si strappavano i capelli e chiamavano i nipotini e le cognate, lo fecero rabbrividire. Quelle povere donne emettevano lamenti e rabbiosi mugolii di disperazione che gli ricordavano il rantolo del maiale scannato dal babbo sull’aia una mattina: ‘No! Non dormono così i bambini! Con gli occhi aperti non si dorme. Cos’hanno i miei fratellini che non si muovono più’, urlò un istante dopo, riscuotendosi.[/i]”
E’ incredibile, eppure la stazione, come la città, non erano dotate di rifugi antiaerei né esisteva una qualche postazione di contraerea. La vuota retorica di regime, che aveva a lungo istupidito le masse, si era convinta di essere autosufficiente, come se bastasse ripetere infinite volte: ”Vincere e vinceremo!”
In “L’Italia sotto le bombe”, lo storico Marco Patricelli sostiene che l’unico a contrastare il nemico sarebbe stato l’asso dell’aviazione Luigi Gorrini, che con un Macchi MC 205 avrebbe abbattuto due Fortezze volanti e un Lightning. Lo attesterebbe la citazione sul bollettino ufficiale e la copertina della “Domenica del Corriere” con la tavola di Achille Beltrame. Ma nessuno dei sulmonesi ricorda lo scontro aereo. E a ragione. Lo stesso Gorrini ha chiarito in un’ intervista, rintracciabile online, che quegli aerei sono stati da lui realmente abbattuti, ma non nel cielo peligno: “Arriviamo al largo di Ostia e vediamo una grande formazione nemica da bombardamento. Non sapevamo dove si dirigevano, pensavamo ancora su Roma, ma poi apprendemmo che l’obiettivo era Sulmona, dove era accantonata la divisione corazzata tedesca Hermann Goering.” Descrive, poi, l’inseguimento, ma accenna a località diverse dalla nostra: Ostia, Nettuno, Cerveteri, Pescara.
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