Biomasse: rassicurazioni non convincono

11 ottobre 2013 | 18:43
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Biomasse: rassicurazioni non convincono

di Antonella Calcagni

Le rassicurazioni del professor Pier Ugo Foscolo del dipartimento di Ingegneria Industriale sugli effetti della centrale a biomasse i Bazzano non hanno avuto effetti sul comitato del no che, supportato dagli interventi di due autorevoli ricercatori, giudica le contestazioni informali del docente imprecise. A supporto della tesi del no giungono i contributi dell’ingegner Giuseppina Ranalli e del professor Gabriele Curci (Fisico dell’Atmosfera – CETEMPS) autore insieme ad altri ricercatori dello studio “galeotto” pubblicato sulla rivista Atmospheric Environment.

Ecco l’opinione del professor Curci. «Ho letto con interesse il suo intervento riguardo la centrale biomasse di Bazzano e sono felice che il lavoro da me condotto insieme ad altri colleghi stia stimolando un dibattito aperto. Vorrei tuttavia fare alcune brevi precisazioni riguardo le perplessità che ha menzionato nel suddetto articolo. Il primo punto da lei sollevato riguarda l’incertezza riportata sui risultati numerici, in particolare quella del 100% sui valori di picco simulati. Questo numero (lo diciamo a beneficio dei meno esperti) indica che i valori di picco potrebbero non essere esattamente quelli riportati, ma che comunque si stima non differiscano dalla presutà “verità” più di un fattore due, in più (il doppio) o in meno (la metà). Questo intervallo è stato valutato ripetendo le simulazioni e variando alternativamente diversi input del modello, andando poi a vedere di quanto cambiavano i risultati. Quest’analisi ha mostrato che gli elementi più critici sono legati alla scelta del calcolo per i coefficienti di dispersione (da lei menzionati successivamente nello stesso articolo) e l’introduzione o meno di dati osservati di velocità e direzione del vento vicino al suolo (presi da una stazione meteo di S. Elia). I risultati così ottenuti hanno portato a concludere che la differenza tra i valori di picco riportati dalla ditta costruttrice delle centrale e i nostri è maggiore di questa incertezza, quindi da considerare significativa. La valutazione dell’incertezza non è pertanto da considerarsi un elemento di debolezza del lavoro, ma al contrario un elemento che ne irrobustisce le conclusioni. Quest’ultime, lo ricordiamo, dicono che è presumibile (1) un aumento significativo rispetto ai livelli preesistenti (+50%) di diossido di azoto, entro un raggio di 2 chilometri dalla centrale lungo l’asse principale del vento, e (2) un certo numero di superamenti della soglia di legge di 200 microgrammi per metro cubo sempre per il diossido di azoto. L’aumento dei livelli di particolato fine e diossidi di zolfo è invece stimato come modesto (+10%).

Il secondo punto da lei menzionato riguarda l’utilizzo di dati di centraline molto lontane dal sito. Presumiamo si riferisca alla centralina ARTA di Via Amiternum, l’unica che all’Aquila misura i livelli di inquinamento. E’ senz’altro vero che la centralina si trova lontano da Bazzano e che non rappresenta i livelli di tutto il territorio comunale, come abbiamo anche riportato nell’articolo pubblicato su Atmospheric Environment, ma questi dati non sono utilizzati in alcun modo per guidare le simulazioni. Essi sono utilizzati nello studio semplicemente per dare un’idea dei livelli di inquinamento cittadini preesistenti alla centrale. Il modello utilizzato per stimare l’impatto delle centrale calcola solo gli incrementi dovuti a questa singola ipotetica sorgente aggiuntiva (la centrale) a prescindere da ciò che già esiste e disperde inquinanti nell’atmosfera. Gli unici dati osservati che vengono usati nelle simulazioni, sono quelli di temperatura e vento della stazione meteo di S. Elia, che è sufficientemente vicina per rappresentare anche la situazione meteo nei pressi della centrale.

Gli elementi di incompletezza dello studio sono semmai altri, già elencati nell’articolo cui fa riferimento. In particolare, non c’è una valutazione dell’impatto della filiera di approviggionamento delle biomasse, sia in termini di trasporti aggiuntivi, sia in termini di cambiamenti all’utilizzo del suolo nelle aree interessate. Si può guardare quindi ai nostri risultati come ad un limite inferiore dell’impatto da aspettarsi dalla nuova centrale. L’ultima precisazione riguarda il taglio che si vuole attribuire all’articolo apparso su Atmospheric Environment. Si tratta di un articolo scientifico, quindi non può per sua natura fornire pareri contrari o favorevoli alla costruzione della centrale a biomasse di Bazzano, ma fornisce semplicemente dei numeri (con tanto di incertezza!) su cui ragionare, da mettere insieme ad altri pezzi del complicato puzzle. Esso, in definitiva, contribuisce a quella base “razionale” che dovrebbe essere utilizzata (a monte) dai decisori per compiere scelte ragionate, che ponderino adeguatamente e quantitativamente tutti gli aspetti del problema».

La professoressa Pina Ranalli, invece, mette in guardia dai danni ambientali che stanno provocando tali impianti, a causa delle ingenti quantità di biomassa vergini richieste, sostenendo che anche in Europa l’orientamento sta mutando.

«i danni ambientali che stanno provocando tali impianti, a causa delle ingenti quantità di biomassa richieste, sono incalcolabili e da alcuni anni numerosi scienziati, associazioni ambientaliste, esperti in energia, fra cui cito Leonardo Maugeri sulla cui preparazione in tema di energia non vi sono dubbi, stanno esprimendo la loro contrarietà.

Nel mese di agosto 2013, una coalizione di oltre 20 associazioni americane, e più di 60 scienziati statunitensi, ha inviato alla Commissione due lettere in cui spiegano che le centrali a biomasse, sovvenzionate dall’UE, hanno innescato una crescita esponenziale del consumo di pellet di legno, la cui produzione si sta portando via le foreste della fascia meridionale degli Stati Uniti. Gli alberi sono abbattuti sempre più massicciamente per esportare pellet verso l’Unione Europea.

Essi dichiarano che diversi rapporti dimostrano come questa nuova industria considerata “verde” ha già minacciato preziose foreste e zone umide del sud degli Stati Uniti. Dichiarano ancora che, secondo diversi studi, l’utilizzo dei pellet non abbassa le emissioni di carbonio. Bruciare alberi per produrre energia elettrica in realtà aumenta le emissioni di carbonio anche rispetto ai combustibili fossili, oltre a creare nuovi problemi di inquinamento dell’aria. Inoltre la bioenergia richiede alta intensità di risorse (acqua, terra, e le stesse biomasse) e non si qualifica come una fonte efficiente per la generazione di elettricità. Le attuali valutazioni sulle biomasse non tengono conto degli effetti negativi di cambiamento indiretto dell’uso del suolo (ILUC ), delle emissioni di gas serra e della perdite di biodiversità. Non si proteggono le foreste ad alto valore di biodiversità e non riesce a garantire una forte definizione di gestione sostenibile delle foreste.

Non è la prima volta che parte della comunità scientifica e diverse associazioni esprimono la loro contrarietà sugli impianti a biomassa. Anche l’Agenzia Europea per l’Ambiente nel 2011 ha dichiarato che la supposizione che la combustione delle biomasse sia neutra dal punto di vista dell’emissione di anidride carbonica è errata perché non tiene conto del fatto che utilizzare terreni per far crescere piante destinate a scopi energetici comporta il fatto che quel terreno non produce piante destinate ad altri scopi che a loro volta sequestrerebbero carbonio.

L’Accademia delle Scienze Leopoldine Tedesca in un report del 2012 sostiene che aumentare o anche solo mantenere l’attuale livello di produzione energetica da legna comporta il rischio di compromettere il patrimonio boschivo nazionale della Germania senza contribuire alla riduzione delle emissioni. Tim Searchinger dell’Università di Princeton ha calcolato che se sono usati alberi interi per produrre energia, come spesso accade, nel giro di 20 anni le emissioni di CO2, rispetto al carbone che è ritenuto uno dei combustibili più inquinanti, aumenteranno del 79%.

The Economist nell’aprile 2013 ha riservato una copertina così titolata: “Wood – The fuel of the future – Environmental lunacy in Europe”.

The Economist parla di follia ambientale e questo, in effetti, è. Anche destinando tutti i terreni coltivabili in Italia per produrre biomassa, ipotesi irrealizzabile per ovvi motivi, riusciremo a sostituire solo il 10% del totale dell’energia che ci serve. Conti realistici ci portano a percentuali più che modeste. Come dice Leonardo Maugeri, dopo aver sradicato vigneti, uliveti e ogni altro tipo di coltura, la montagna partorirebbe un topolino. Tale tecnologia non è, e mai potrà essere, la soluzione energetica del futuro. La previsione che le colture dedicate a rapidissima crescita, le cosiddette Short Rotation Forestry (SRF), avrebbero garantito quantitativi di biomassa elevati così da ottenere rese accettabili, si è scontrata con la realtà: scarsità di acqua, malattie delle piante, inaridimento dei terreni, richieste elevate di fertilizzanti, inquinamento delle falde.

Un totale fallimento che avrebbe dovuto ricondurre a un ripensamento ma, evidentemente, la macchina del business, più precisamente gli interessi di chi vende gli impianti, si era già avviata e gli investitori che hanno puntato a questa tecnologia, incuranti dei gravissimi effetti collaterali, continuano a sostenerla.

Nel Convegno sulle biomasse tenuto a Casaonna venerdì 29 settembre 2013 è stato dimostrato che i prelievi legnosi nei boschi in Italia, negli ultimi anni, sono diminuiti di 1,2 milioni di metri cubi (fonte dati: ISTAT), mentre l’import di legname, pellet e particelle legnose è cresciuto di circa 3 milioni di metri cubi (fonte dati: ISTAT e FAO). L’Italia è, inoltre, il primo importatore mondiale di legname illegale proveniente da foreste protette (studio Government Barometer on Illegal logging and Trade 2012 promosso dal WWF).Il “Consiglio Pellet Europeo” ha dichiarato che le importazioni di legname in Europa sono cresciute del 50% nel solo 2010. La conseguenza è l’innalzamento dei prezzi del legname. La realtà quella vera, non quella raccontata con gran battage pubblicitario da chi ha interessi commerciali, è che parte dei nostri soldi sulle rinnovabili va alle grandi società produttrici di impianti di biomassa (es. la General Electric che ha siglato un accordo strategico di 50 milioni di dollari con il gruppo AB, una holding europea), alle grandi compagnie americane di legname e alle mafie internazionali che grazie al lavoro nero disboscano foreste che sono patrimonio della collettività.

Gli alberi, in particolare quelli ad alto fusto, sono gli unici organismi viventi in grado di immagazzinare carbonio e sottrarre calore all’ambiente con la fotosintesi clorofilliana. Abbattere loro significa mettere a repentaglio la sopravvivenza dell’intero pianeta.

Concludo con una dichiarazione di Jean Ziegler, esperto delle Nazioni Unite, che nel 2007 riferendosi ai biocarburanti (i fratelli delle biomasse) disse che sono un Crimine contro l’Umanità».