
di Raffaella De Nicola
La domanda mi arriva improvvisa e perpendicolare come una lama “Ma come era prima? Noi stiamo tutti fuori di testa” è mia figlia che parla, 14 anni.
Non rispondo subito, devo calmierare i sentimenti di questi Natali senza città e di questa città senza Natale. Ora è il tempo del quasi, tutto ibernato sotto lo strato di ghiaccio mattutino che, cauta, attraverso in questa piazza vuota, una volta culla della giornata, con gli ambulanti, i guanti battuti l’uno contro l’altro, i riti del mercanteggiare. Mi chino, tanto sono sola in questo deserto dei tartari, tocco la lucida pellicola ghiacciata e penetro nella palla di vetro dove nevica sopra i tetti dai camini fumanti, le vetrine della piazza addobbate, la folla che gira frenetica fra i negozi, quasi mi spingono, l’albero di Natale in Piazza Palazzo, gli zampognari che ti corteggiano, l’Upim a via Sallustio, la vetrina stupefacente di Regalcasa, i piedi che sbatti quando entri sotto i portici, gli ombrelli che ti beccano sempre in faccia, la cioccolateria a via Navelli, la libreria Colacchi di fronte la fontana semigelata di Piazza dei Gesuiti, centinaia di ragazzi che si adocchiano, gli auguri ad ogni passo del corso, gruppetti che si formano continuamente ci stemo a vedè, auguri a casta, non magna troppo, salutami fratetu la nuvoletta che esce dalla bocca, le pacche robuste sulle spalle imbottite, la vita senza il quasi.
Capovolgo la palla di vetro, mi ritrovo una palla di neve che tiro da dietro una colonna dei portici, becco quel tizio tu mi piaci ma io te piacio? fuggo starnazzando con le altre oche per via Tre Marie, ci fermiamo a piazzetta delle tavole, salgo per via Accursio, il sarto ancora sta lavorando vicino la porta finestra per rubare l’ultima luce e guidare l’ago, i vetri sono appannati, guardo l’irriverente maschera con la lingua fuori vicino la casa di Buccio.
Rigiro ancora la palla di vetro, ora da una chiesa usciamo dopo la messa di mezzanotte, ci si saluta ancora, andiamo a giocare insieme, passiamo davanti l’angelo muto ma l’acqua è ghiacciata, io me ne casco pure perché sono goffa come una marmotta con il piumino dell’ uomo Michelin.
Adesso la agito freneticamente, la palla, guardo con la testa in su la neve che non ha inizio, si posa persino sulle luminarie del corso, sugli alberelli fuori i negozi, sembrano buffi colbacchi, saluto Peppe della Luna che con la pistola ha sparato a tutte le ragazze aquilane, i famosi buchi alle orecchie, ci ripariamo sotto i portici del classico, entriamo nelle chiese per vedere i presepi, andiamo alle nicchie di san Bernardino, scivoliamo lungo la gradinata.
Fermo la palla di vetro, la neve si posa, qualche fiocco tarda, sbattiamo mani e piedi per il freddo, entriamo alla Standa per scaldarci, abbiamo il naso rosso come una luce natalizia, aperitivo a la Fenice, calzone da Stefania, no per ora non torno a casa vai intanto tu mi piace questo freddo intenso, mi piace quando il centro comincia a svuotarsi, quando il vociare si addormenta e scende, con la notte, il silenzio che parla, il Natale che ti entra dentro, il respiro intimo della tua città.
Poso la palla, scruto la sfera di vetro. La città è ibernata sotto lo strato di ghiaccio mattutino che, cauta, ho attraversato nella piazza vuota e attende, mentre sfoglio i ricordi, il mio consueto bacio che è [i]un mozzico doce, ‘na carezza fatta co’ tenerezza, è un minuto de filicità, quasci ‘n’eternità[/i].
Bacio la mia città in questi giorni di malcelato tradimento, mi appello alla lezione de “la Vita è bella” di Benigni, straccio rabbiosamente il dolore, lo sdrammatizzo, lo faccio a pezzetti come un foglio di carta, me lo mangio, ci ironizzo sopra per sferzarlo, soffio sulle piccole parti che colpiscono mia figlia, sorridiamo di quei piccoli atomi di dolore, guadagniamo spazio e potenza, in questo tempo del quasi, quasi nulla, quasi vita, quasi auguri, quasi Natale.
I versi poetici sono tratti da “Il bacio” di Mario Lolli