
di Giovanni Baiocchetti
Sono davvero pochi gli italiani che parlano la nostra lingua nazionale completamente scevra da influssi dialettali (italiano standard), anche da quello più comune che è l’accento. Quando ascoltiamo una qualsiasi persona parlare italiano, siamo quasi sempre capaci di capire o intuirne la provenienza da alcune caratteristiche linguistiche che ci permettono di classificarlo come siciliano, veneto, sardo, napoletano, milanese, romano e così via.
Questo modo di parlare un italiano influenzato in diversa misura dai tanti dialetti della penisola viene chiamato italiano regionale. Attenzione però a non considerarlo una varietà linguistica collegata alle regioni amministrative così come le conosciamo oggi. Il termine “regionale” utilizzato per riconoscerlo da altri modi di parlare diffusi in Italia, come il dialetto o l’italiano standard, non significa che esso coincida con i confini amministrativi delle varie regioni italiane. Detto ciò, possiamo proporre una divisione delle varietà regionali di italiano in sei “macroaree”: la varietà settentrionale, la varietà toscana, la varietà romana, la varietà meridionale, la varietà meridionale estrema
e la varietà sarda.
Dal momento che il dialetto del capoluogo abruzzese si inserisce nell’area linguistica mediana con interferenze meridionali, il modo di parlare italiano di un aquilano presenta caratteristiche simili alla varietà meridionale ma, allo stesso tempo, condivide alcuni tratti linguistici con la varietà romana, data la vicinanza alla capitale.
Tratti in comune con l’area meridionale sono:
. la palatalizzazione della –s- davanti a qualsiasi consonante (ʃtella per stella, ʃpiegare per spiegare, ʃcarpa per scarpa);
. la cosiddetta “lenizione postnasale”, ovvero il passaggio dopo -n- dei suoni -k-, -t-, -p- rispettivamente a -g-, -d-, -b- (bangu per banco, monde per monte, cambu per campo) ;
. l’uso di starci e tenere al posto di esserci e avere (esempio: ci sta il capotreno e io il bijjetto non lo tengo).
Queste, invece, le principali caratteristiche comuni tra la varietà aquilana, la varietà meridionale e quella romana:
. la realizzazione intensa dei suoni b e g tra vocali (àbbito per abito, viggile per vigile);
. la pronuncia –jj- in parole come fijjo per figlio, pajja per paglia, mejjo per meglio;
. la pronuncia intensa della consonante iniziale nella parola cchiesa (ma non in ssedia come a Roma);
. il passaggio di –s- a –z- dopo l,n,r (esempio: penzo per penso, inzomma per insomma, anzia per ansia, forze fer forse). Questo tratto è tipico anche della varietà romana;
.il troncamento (apocope) degli allocutivi e degli infiniti (esempio: “Francé, che stai a ddì?” o anche “professó, pòsso andà al bagno? ”);
.l’aggettivo possessivo che di solito segue il nome (il quartiere mio, la scuola nostra) ;
.il cosiddetto “ci” attualizzante, usato come rafforzativo (esempio: c’ho sonno, quanti fijji c’hanno?, c’ho ‘na fame!) .
Fonte: [i]Lingue e dialetti d’Italia[/i] di F.Avolio