La chiesa aquilana e il sisma del 1703

17 febbraio 2014 | 20:22
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La chiesa aquilana e il sisma del 1703

di Enrico Cavalli*

La diocesi aquilana – diretta per implicito disegno egemonico dei governatori ispanici, dal 1529 sino alla fine del secolo XVII, da presuli di origine iberica e napoletana, ad eccezione del paganichese De Rubeis – comunque denotava componenti ecclesiastiche vessillifere dell’identità municipale, toccata dalle pestilenze e sollevazioni antifiscalismo del difficile secolo XVII. Ciò parve all’atto del sisma del 1703, intaccante tutta la vallata dell’Aterno e che provocò oltre tremila vittime nel centro storico aquilano, molte delle quali investite dal crollo delle chiese cittadine, perché quel rovinoso evento avvenne alla ricorrenza del giorno della Candelora.

A questo cruciale tornante della vicenda aquilana i fedelissimi cittadini replicarono in un afflato di devozione religiosa, coinvolgente le stesse simbologie laiche. Quanti avevano subito una tale prova non disdegnarono ad ammonire sul possibile ripetersi di sismi le future generazioni, anzi indicandogli percorsi di rinascita.

Di tutta evidenza la significazione nell’area urbana di importanti motivi civili e religiosi nonché denominazione di luoghi e toponomastiche. Si pensi agli sgargianti colori della municipalità dal bianco-ocra, come dalla facciata di Santa Maria di Collemaggio, e mutati nella sobrietà del neroverde, l’uno colore memore della drammatica ora, l’altro speranzoso del riscatto morale e materiale; ai molti e nuovi palazzi signorili fregiati di giunti antioscillazione sismica ed esternamente dalle forme di giglio per ricordo delle giovanissime vittime, cui fu dedicata la chiesa delle Anime Sante nella piazza Maggiore e del mercato; alle vie intitolate a personaggi e popolazioni specie napoletane e lombarde e coadiuvanti la fase di riedificazione; all’accorciamento delle feste carnascialesche a più tarda impetrazione, da simili calamità per la città, di Sant’Emidio.

Venne impostata una sinergia rifondativa grazie al patrocinio di papa Clemente XI, stavolta grandemente disposto ad accogliere i bisogni degli aquilani scampati ad una indicibile congiuntura, dove ebbe a perire lo stesso Vicario capitolare in carica Antonelli, cui succedette Domenico De Benedictis per un decennio, fino all’investitura, da parte della Congregazione dei vescovi, del Vicario apostolico Francesco Maria Tanzi, nativo di Matera.

Il papa urbinate, tanto benefico costruttore di opere nello Stato Pontificio, volle la rinascita di un territorio importante per la storia religiosa non solo italica e finanziò personalmente il piano di restaurazione delle ‘99’ chiese aquilane, non senza volere sottacere i meriti della parte civile, che, su regia dell’inviato dal Vicerè marchese Del Garofalo, all’indomani del sisma, alla piazza maggiore e del Mercato, realizzava baracche adibite a centri direzionali dei soccorsi alla popolazione.

Rilevava che, come tutto il meridione, l’Aquilano fosse passato per effetto delle guerre di successione del secolo XVIII, ovvero, di quella spagnola del 1702-1715 e conclusasi con le paci di Utrecht del 1713 e Rachstadt del 1714, sotto la dominazione austriaca che palesò un buon governo civico durante l’arco di un trentennio, precisamente dal 1706 fino al 1738 l’anno di cessazione della guerra di successione polacca; questa amministrazione asburgica ebbe effetti benefici per una città che stentava a riassumere la ruralizzazione seguitata, a sua volta, dal governo dei ceti nobiliari alla insegna della accumulazione di rendite terriere e pastorali a partire dalla suddivisione del contado in era spagnola e a tutto svantaggio delle sfere produttive artigianali.

Per tornare alla città dal lato ecclesiastico, tuttavia, essa assumeva una forma diversa da quella quattrocentesca e a due velocità ricostruttive, perché i Celestini tornarono a Collemaggio dopo tre anni, invece, a rimettere su Santa Maria di Paganica, ad esempio, ci vollero più lustri, nonostante gli ammonimenti a fare presto e bene del nuovo presule nominato nel 1712 da Carlo VI d’Asburgo e di origine partenopea Domenico Taglialatela. Questi esercitò i suoi uffici all’inizio da Napoli, prudentemente, in attesa del componimento della questione fra potere laico ed ecclesiastico circa l’immunità dei sacerdoti dalle sentenze dei tribunali civili nell’era giurisdizionalista. Entrò ufficialmente nel 1718 ad Aquila per effetto di decisione di papa Clemente XI, significativamente preceduto dagli onori tributati dai fedeli alle spoglie del tanto vicino ai diseredati vescovo Della Zerda e quindi traslate in cattedrale.

Taglialatela operò a vasto raggio per il risollevamento sociale degli aquilani, bene meritando l’appellativo di vescovo-architetto, e non lesinò di finanziare a proprie spese l’episcopio con l’aggiunta della cappella del Santissimo e cenotafi dei presuli all’altare maggiore e da ultimo il coro intagliato dal valente Mosca di Pescocostanzo; anzi, premurandosi di sconsigliare i tecnici dalla realizzazione di ampie ed elevate arcate e del secondo piano dell’intero complesso della cattedrale, invero, tali tipologie restaurative sì arditissime attuate in altre chiese.

Il rifacimento della sede vescovile avvenne sulla base del disegno della gesuitica chiesa romana di Sant’Ignazio, per cui, rispetto all’origine, l’edificio ebbe l’estensione da est verso ovest e la facciata principale da via Roio si spostò davanti al mercato cittadino; ciò mutò definitivamente le polarità urbane, la popolazione dovendosi quindi relazionare ad un diverso e cruciale punto di aggregazione religiosa che civile. Questo nuovo posizionamento della cattedrale rispondeva alla edificazione in piazza centrale della chiesa di Santa Maria del Suffragio, appunto dedicata delle Anime Sante.

Per tornare al ruolo di ricostruttore svolto da Taglialatela, parimenti sostenne il restauro della provata dalle scosse telluriche chiesa di San Marco e sede anche della confraternita della Madonna del popolo aquilano, onde rinnovare un antica devozione il cui eco varcherà i confini cittadini, tanto che molti sovrani e dignitari europei intenderanno farne parte, [i]in primis[/i], la principessa ereditiera d’Asburgo Maria Teresa.

Concluso il cantiere della cattedrale, nel 1729 essa veniva finalmente riaperta al pubblico culto, mentre altre chiese da tempo erano state riconsacrate a partire dall’Abbazia di Collemaggio, per la quale i Celestini ultimarono i restauri in quasi cinque anni e nel 1712 dalla chiesa di San Domenico con annesso convento.

La generale ricostruzione post sisma fu innescata dalla istituzione della zona franca nell’Aquilano, ovvero l’esenzione dal pagamento di tributi nel territorio tanto sotto il governo borbonico che austriaco, ma riceveva costante impulso dalla produzione di esemplari modelli chiesastici [i]intus ed extra moenia[/i] con casi di committenze ad imprese e tecnici locali; è il caso dell’insigne architetto Francesco Leomporra per la cupola della chiesa del Suffragio, come alla Concezione di Paganica.

La sfera religiosa affrettava il processo rifondativo cittadino tramite interessanti operazioni immobiliari, così ricercando quelle soluzioni virtuose che mettessero in condizione di agire i soggetti anticipatori di capitali e iniziative a vasto raggio per ridare un nuovo volto ad Aquila. Emblematico che la difficoltà di ricostruire un grande edificio a piedi piazza del Mercato a causa delle divergenze fra i proprietari gesuiti, domenicani, celestini e gerenti la spedalità aquilana, viene superata concedendo l’acquisto in enfiteusi della parte di spettanza ospedaliera, con un canone annuo pari alla rendita che quest’ultima ritraeva dall’immobile distrutto prima del sisma del 1703.

Gli amministratori diocesani non lesinavano energie per la rinascita di un virtuoso clero, e, parallelamente al terzo sinodo, istituirono un’Accademia di morale, stabilendo che annualmente si tenessero gli esercizi spirituali per i sacerdoti nella sagrestia della cattedrale. Sta di fatto che la città assunse una fisionomia ad opera del potere ecclesiastico, rinnovando le antiche parrocchie e i conventi, i loro apparati e i nuovi ordini religiosi, quasi in competizione fra loro, innalzando altri fabbricati adibiti ad opere assistenziali.

Taglialatela ebbe l’epilogo del suo travagliato quanto intenso vescovato in una ennesima ed appassionata predica, alla amata chiesa di San Marco il 18 marzo 1742. Il reggimento borbonico napoletano, per l’Aquilano, sarebbe stato recepito, religiosamente, tramite la prosecuzione di una guida vescovile di matrice partenopea, nel fervore apologetico non disgiunto dalla attività pastorale e sociale dei prelati diocesani. Ennesima dimostrazione dell’intreccio di rapporti fra ecclesialità e civismo, in un territorio che, superato fruttuosamente il drammatico evento sismico, si preparava, con rinnovata fiducia morale e concretezza di intenti materiali, ad affrontare le altre e cruciali trasformazioni del secolo XVIII.

*storico