
di Gioia Chiostri
Mi sono sempre chiesta quale sia l’essenza del Carnevale. Perché non stufi, non stanchi, ma diverta, meravigli, catturi. Anche quest’anno ogni stemma di paese è stato soggiogato dalla forza impetuosa del Carnevale. I carri hanno corso sulle strade, i figuranti hanno salutato dagli spalti, la gente ha riso, ha partecipato, ha gradito. Il vortice di colori ci ha ancora una volta saziato. Fra i libri vecchi di cent’anni e le pagine ingiallite, ho poi trovato la soluzione: il Carnevale è il giardino del Non so che.
E proprio per non impazzire davanti a questa astrusa definizione, ecco che mi sono permessa di trascrivere la favola del ‘Non so che’, l’essenza di tutte le cose belle che al mondo ci piacciono, e tanto. Fu scritta da Pierre Carlet de Chamblain de Marivaux e pubblicata in un periodico francese,[i] Le Cabinet du Philosophe[/i], nel 1734. La favola, o [i] fantasia piuttosto bizzarra[/i], come la chiama lui, racconta di un uomo che aveva trovato lungo il suo cammino due giardini: quello della Bellezza e quello del Non so che.
{{*ExtraImg_189768_ArtImgRight_300x192_}}[i]Le porte di due giardini si trovavano l’una di fronte all’altra. Su quella del giardino superbo, si leggevano in lettere d’oro queste parole: LA DIMORA DELLA BELLEZZA. Su quella del giardino ridente stava scritto in caratteri di tutti i colori fusi assieme, a formarne uno indefinibile: LA DIMORA DEL NON SO CHE. Mi sarei augurato che fosse possibile vederli tutt’e due assieme; ma verosimilmente non c’era da fare paragoni tra l’uno e l’altro, bisognava cominciare da quello che destava più curiosità[/i]. Chi avrebbe scelto di primo impatto il giardino del Non so che? Nessuno, direi. Tant’è che il protagonista della favola sceglie di incominciare la sua avventura surreale proprio dal giardino ‘bello’ per eccellenza, quello di sua maestà la Bellezza perfetta. Potremmo paragonarlo in un certo senso ad un gran ballo di gala.
[i] Tutto quello che la simmetria più esatta e la distribuzione più accorta possono produrre di sorprendente, e a mala pena vi farete un’idea di quel che mi accadde di vedere. Giudicate voi se gli uomini avevano torto: era la Bellezza stessa, la Bellezza in persona. Ella lasciava negligentemente cadere su ciascuno di essi, così come su di me, degli sguardi che ci facevano esclamare tutti: Ah, che begli occhi! E, un momento dopo: Ah, che bella bocca! Ah, che bel profilo del volto! [/i]
Eppure tutti gli uomini che nella storia entrano nel giardino fantastico e perfetto della Beltà, poco dopo decidono di uscire, di scappare via da quel nodo di lacci stupendi. Perché? Semplicemente perché la Bellezza stufa e stanca. [i] Non ci sarà [/i] – si chiede il protagonista – [i] che la nostra espressione di contentezza? Non si vive che del piacere del vedere? [/i] Madama Bellezza non scende a patti con gli uomini, non mostra passioni, non dialoga con gli sguardi e soprattutto è sempre uguale a sé stessa, come un disco rotto.
{{*ExtraImg_189769_ArtImgRight_300x189_}}Il giardino del ‘Non so che’, invece, è un tripudio di casualità e di caos colorato. Così lo si descrive: [i] studiata negligenza, disordine, sì, ma un désordre du meilleur goût monde [/i] (un disordine del miglior gusto del mondo). L’uomo decide allora di abbandonare la culla della bellezza e di tuffarsi nel magico mondo del ‘Non so che’. Fugge dalla perfezione e sceglie la casualità. Ma, l’Immobile Fierezza delle persone belle, colei cioè che si assume l’incarico di [i] mantenere lo spirito della Bellezza freddo e tranquillo affinché possa lasciare in riposo il suo volto, e non ne diminuisca in nulla il nobile decoro, blocca il visitatore e gli chiede: «Eh, perché andartene? La Bellezza non avrebbe dovuto avvicinarti a lei? Che ti resta da vedere dopo averla veduta?». «Nulla – risponde l’uomo – senza dubbio. Ma l’ho veduta abbastanza (…); così non mi insegna nulla di nuovo. Bisognerebbe che la Bellezza prendesse la pena di parlare lei stessa, e di mostrare lo spirito che possiede, giacché son convinto che non possa non averne». «Ma augurarsi che lo spirito trasparisca su di un bel volto – risponde la Fierezza – significa augurarsi l’alterazione dei suoi fascini; lo spirito può aggiungere qualcosa ai tratti privi di forma, ma nuocerebbe ai tratti perfetti; non sarebbe capace di scompaginarli». [/i]
Morale: il ‘Non so che’, come il Carnevale è un tripudio di maschere strane, ridicole, affascinanti, divertenti, orrende, incomprese. Ma proprio per questo attrae. Attrae perché non rappresenta la bellezza del mondo, ma la sua unicità, il suo disastro umoristico che però si gradisce. Tutti partecipano al Carnevale, nessuno è escluso. Belli e brutti, freddi e caldi, simpatici e antipatici. E’ lo specchio della società, l’estremizzazione di tutti i suoi lati. Come un prisma con tante facce, tutte diverse ma tutte indispensabili, il Carnevale ci ricorda che è inutile tentare di divenire perfetti, perché la perfezione è la prima a morire quando si scontra col muro del gusto personale.
Si rivela il ‘Non so che’: [i] Non mi cercate sotto una forma, ne ho mille, e non ne ho nessuna di stabile: ecco perché mi si vede senza conoscermi, senza poter né afferrarmi né definirmi; mi si perde di vista vedendomi, mi si sente e non mi si discerne; insomma, voi mi vedete, e mi cercate, diversamente, non mi troverete mai: così non sarete mai stanchi di vedermi. [/i]