Storie di donne: l’infermiera di Garibaldi

20 marzo 2014 | 11:08
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Storie di donne: l’infermiera di Garibaldi

di Gioia Chiostri

Avere a che fare con le donne non è mai un’operazione scontata. Si ha a che fare con le donne quando si vanno a riprendere i figli da scuola o dal nido, quando si va a fare la spesa nel momento libero da un abitudinario lavoro; si ha, insomma, a che fare con le donne quando la vita degli uomini subisce uno strappo. Nella loro plastica e abituale routine quotidiana, fra l’ora del caffè mattutino, espressamente in compagnia della moglie, e l’ora della cena in famiglia con, si spera, tutta l’attività familiare al completo, esistono dei coni d’ombra, dei tempi morti, in cui ci si scontra con una donna.

Lungo la via delle abitudini, ecco che spicca un volto femminile, acuto e affusolato. Eppure, in un momento storico in cui si vorrebbe far crescere la popolazione femminile che conta, rendendola per così dire ‘legale’ ai fini dei più disparati ambienti lavorativi, ecco che noi donne ci ritroviamo sempre allo stesso punto. Che può essere di partenza come d’arrivo. Ci arrabbiamo tantissimo, violentiamo queste benedette visioni nostalgiche degli anni ’50, ma poi ci riaccoccoliamo nella nostra posizione di vincitrici di spalle. Cosa significa? Significa che si fa tanto baccano per nulla, che si minaccia un terremoto generazionale e poi forse ci si rende conto che i tempi non sono maturi o che la storia la fanno altri, mica noi. Basterebbe, a questo punto, buttare un occhio un po’ più in là di quelle stesse spalle. La storia non ci ha viste sempre silenti, sia ben chiaro. Adesso più che mai servirebbero delle battaglie prese ad esempio.

E se ne propone una, che ha il nome di Jessie White. Si prova a mettere per un attimo il mondo sottosopra, per guardarlo dal basso verso l’alto e tentare di vedere là, su quella base sempre troppo inneggiata ma mai in fondo conosciuta, cosa c’è davvero. E c’è la storia di una donna, garibaldina della prima ora, che nonostante la sua schietta discendenza straniera, ebbe un rapporto molto stretto con la nostra Italia. Mentre studiava a Parigi, nel 1854, conobbe un’altra donna forte, Emma Roberts, ricca vedova inglese, ammiratrice di Garibaldi, che la invitò a venire in Italia assieme. Era Jessie una giornalista, come diremmo oggi, freelance. Nel 1855 tornò in Inghilterra portando con sé Ricciotti, un figlio di Garibaldi, che aveva bisogno di cure mediche. Cercò di iscriversi alla facoltà di medicina, poiché pensava fosse questa la strada migliore per ottenere un ruolo di spicco, nonostante fosse una donna, nella guerra contro l’Austria. L’Università di Londra però, respinse il suo sogno di medico.

Rivoluzionaria nel sangue e nella mente, venne imprigionata a Genova con altri democratici eversori. E fu proprio in carcere che ebbe la sua storia d’amore. Conobbe il suo futuro compagno, Alberto Mario, rifugiato veneziano, con il quale istaurò un rapporto estremamente anticonvenzionale, durato la bellezza di 25 anni.

Partì poi per la Sicilia assieme al suo amato, nel 1860, su una nave a vapore colma di rifornimenti e armamenti per Garibaldi e le sue truppe. Fu proprio allora che finalmente Jessie scrisse il suo destino, si rese un utile cioè all’ideale della patria, della lotta e del suo sogno in medicina. Svolse un ruolo attivo nel servizio di ambulanza garibaldino. Nel 1862 fu lei, infatti, l’infermiera che aiutò il chirurgo ad estrarre il proiettile dalla caviglia di Garibaldi in Aspromonte. Scrisse articoli critici nei confronti del neo stato italiano sulle colonne del settimanale americano ‘The Nation’. Partecipò alla campagna per il controllo delle nascite e pubblicò biografie di Garibaldi, Mazzini e altri patrioti da lei conosciuti nel corso della guerra.

C’aspetteremmo una fine di lusso, intessuta di onori e gloria. E invece no. Perché Jessie White, la mancata dottoressa che aiutò più, forse, di qualsiasi altro dottore laureato, concluse i giorni della sua vita in relativa povertà, sostenendosi con un saltuario lavoro di insegnante presso un istituto magistrale di Firenze. Morì all’età di 74 anni e al suo funerale furono presenti più donne che uomini, soprattutto studentesse in erba, che avevano magari riconosciuto nella ‘straniera ma morta in patria’ Jessie White una fulgida stella da seguire. La stella cometa, a volte, è in un semplice libro di scuola. Altre in un’eroina straniera che ha desiderio, d’improvviso, di innamorarsi dell’Italia e di donarle la sua vita. Onore quindi ad una donna troppo lontana nel tempo. Onore ad una donna che forse, oggi, le quote rosa le avrebbe chiamate superbia azzurra.