Manifestazione a Parigi contro le grandi aziende della moda

di Marzia Ponzi
E’ di nuovo polemica contro le disumane condizioni degli operai nelle fabbriche dei Paesi in via di sviluppo, soprattutto in quelle del settore tessile. A riportare a galla lo scottante argomento è la notizia che ieri due Ong attive per la tutela dei diritti dell’umanità, “Popoli solidali” e “Collettivo etico sull’etichetta”, hanno organizzato l’ennesima copiosa protesta nel cuore di Parigi per chiedere alle multinazionali della moda di muoversi concretamente contro le terribili condizioni di lavoro in cui versano le suddette fabbriche, soprattutto nel paese del Bangladesh.
Sotto accusa i marchi della moda più famosi e soprattutto le enormi catene low cost da H&M, a Zara, accusate di produrre gran parte delle loro collezioni negli stati nel mirino, in fabbriche prive delle più fondamentali norme di sicurezza sul lavoro, in cui i dipendenti, ridotti a mere “macchine da produzione”, sono costretti a lavorare per ore, con scadenze di consegna sempre più brevi e quel che è peggio a tariffe sempre più basse. Insomma un vero e proprio sfruttamento di quelle che secondo gli attivisti sono le uniche vittime della moda.
«Noi puntiamo il dito contro tutte le case di moda francesi e non solo, che senza controlli né scrupoli, si riforniscono in Bangladesh – ha affermato Katia Roux – Chiediamo a queste aziende di firmare l’accordo proposto dalle organizzazioni di difesa dei diritti dei lavoratori e dei sindacati locali e internazionali che prevede misure concrete per prevenire questi incidenti».
Ideata e realizzata come una sorta di sfilata di moda, la manifestazione, ha avuto il suo momento clou proprio con l’uscita di una decina di modelle con indosso abiti bruciati, atto questo diretto contro gli incendi sempre più frequenti e disastrosi che colpiscono queste malsane fabbriche. Solo nel dicembre scorso, infatti, un incendio a Dacca ha causato la morte di 110 dipendenti, tutte donne, e dal 2006 sono oltre 600 le vittime degli incendi nel Bangladesh, stando ai dati della Clean Clothes Campaingn, un’associazione che lavora da anni per il miglioramento delle condizioni di lavoro e per sostenere la responsabilizzazione dei lavoratori nelle industrie globali di abbigliamento e di abbigliamento sportivo.
Un dato, quest’ultimo, davvero allarmante, che alimenta una polemica viva da anni e che cresce ogni giorno in maniera proporzionale alla crescita economica delle aziende che hanno fatto della produzione nei paesi in via di sviluppo il proprio [i]status symbol[/i].