
di Gioia Chiostri
Alzare la voce contro la Camorra, contro la corruzione, la meschinità, il favoritismo, il culto del denaro per ottenere il diritto più sacro al mondo, il pane d’ogni uomo, e cioè il silenzio intorno alla propria vita e alle proprie scelte. Scegliere liberamente non è così scontato per chi ha bevuto dalla coppa delle minacce. Troppo rumore scordato quando nelle vite degli onesti si intromette il tarlo della mafia. Questa specie di ‘altro mondo’, di universo parallelo che vive di clandestinità, ricatto e indifferenza, «va combattuto con la parola, con le carte scritte, con la denuncia». A Capistrello (L’Aquila), ieri, hanno alzato la voce coloro che la Mafia l’hanno vista in faccia, l’hanno incontrata per strada, dietro l’angolo della propria casa. Coloro, insomma, che hanno incrociato lo sguardo del cancro d’Italia, per scrutarlo a fondo e dirgli di no.
C’è un sottile discrimine fra l’indifferenza e l’omertà. Indifferenza è insensibilità, il più delle volte. Omertà è delitto della verità. L’imprenditore di Sessa Aurunca, Antonio Picascia, anti-camorrista affermato, ha ribadito un unico concetto, denso di significati, di fronte alla platea per metà scolastica e per metà istituzionale alla Sala Ottaviani. «La coerenza fa paura alla Mafia. E io sono sempre stato coerente con me stesso e con la mia coscienza, innanzitutto».
{{*ExtraImg_193864_ArtImgRight_300x402_}}La storia di Picascia è cominciata nel gennaio del 2007 quando il Boss di Sessa Aurunca gli impose di assumere suo fratello a 1200 euro al mese nella sua azienda a conduzione familiare. «Io dissi di no perché non avevo bisogno di altro personale. Ma, come si dice in Sicilia, gli uomini che incontrai in quel bar anni fa, nel mio primo incontro con la Camorra, mi dissero: a noi non interessa, s’ha da fa’. Il marcio, nel mio caso, dov’è che si nascondeva? Il criminale era il dirigente dell’ufficio tecnico del comune e visto che noi facevamo impresa in provincia di Caserta, a loro pareva naturale che dovessimo sottostare alla logica del ‘pizzo’. Dal 2007 per me, cominciò l’inferno».
«Capii allora – ha continuato l’imprenditore – che partita stavo giocando. Se avessi accettato, non avrei potuto più guardami allo specchio. Mi diressi immediatamente dai carabinieri, quei 14 chilometri che mi distanziavano dalla caserma furono i più lunghi della mia vita. Capii allora che la Camorra esisteva e capii qual era il vero veleno della società. Io sono stato fortunato, ho incontrato persone eccezionali che mi hanno porto la mano: la Guardia di Finanza, i sindacati, gli stessi carabinieri. Ebbene, a Caserta fece clamore che un imprenditore non si piegasse al pizzo, ma io credo che il dovere di ogni cittadino sia estirpare l’erba cattiva. Ricordo ancora cosa rispose il comandante della caserma alla mia domanda su cosa mi sarei dovuto aspettare da quel giorno della denuncia in poi. Mi disse: lei ha scelto la strada giusta, la squadra vincente. Io sono stato criticato dall’amministrazione del mio paese perché mi dissero che la Camorra l’avevo portata io. Ecco qual è il mio messaggio: che nonostante tutto io sono ancora qua e sto che meglio di prima, perché mi sento un uomo migliore».
{{*ExtraImg_193865_ArtImgRight_300x192_}}Queste storie non sono solo racconti, ma battaglie. E come in ogni storia, anche in queste ci sono le vittime, come Don Peppe Diana. La Camorra vince quando riesce a spezzare tutti i legami di una comunità quando si resta da soli e si è disperati. E la storia di Simmaco Perillo, che di mestiere fa l’assistente sociale, ma che è anche referente di Nco (Nuova cooperazione organizzata e del Comitato Don Peppe Diana) rimarca proprio questo. «Vorrei tornare indietro di qualche decennio – ha detto – quando il 19 marzo del 1994 questo giovane prete che aveva nome di Don Peppe Diana venne ucciso con un colpo di pistola nella sagrestia della propria Parrocchia a Casal di Principe, alle ore sette del mattino. Don Peppe era uno che viveva fra i ragazzi e la cosa che non gli tornava era questa: a Casal di Principe, vedeva morire i giovani. Le guerre di Camorra si fanno con i ragazzi, perché sono più semplici da acchiappare col soldo facile. Si contano più di mille morti in tutti questi anni. Don Peppe si fece carico di mettere nero su bianco la follia della Camorra con il suo scritto ‘[i]Per amore del mio popolo[/i]’, perché per lui era impossibile veder morire i suoi ‘bambini’. Fu allora che i camorristi decisero di fare questo omicidio eclatante: ammazzare un prete il giorno del suo onomastico. Però, due giorni dopo l’omicidio, 20.000 persone arrivarono a Casal di Principe per manifestare tutto lo sdegno dei confronti del suo assassinio. La gente di Casal di Principe scese in piazza e mise lenzuoli bianchi fuori le finestre. Ciò si può leggere come il primo atto di risveglio di una comunità. Sulla morte di Don Peppe ci fu il silenzio all’inizio, anche la Chiesa locale non prese posizione sulla sua morte. E allora come si fa a capire da quale parte stare? È da lì che nacque il Comitato Don Peppe Diana, dalla volontà di riscatto per quella morte. Si arrivò così alla sentenza del processo Spartacus, quando a Don Peppe è stato riconosciuto il ruolo di vittima innocente. Ci sono voluti dei decenni, ma il suo nome oggi è la bandiera del riscatto di quelle terre».
{{*ExtraImg_193866_ArtImgRight_300x192_}}Nel 2004 è arrivato Don Luigi e ha chiesto al Comitato di rifondare Libera in provincia di Caserta. «Ma non volevamo essere solo memoria. Chiedemmo a Don Luigi di fondare la prima Cooperativa di Libera Terra in Regione Campania e da lì nel 2008 nacque un protocollo di intesa con la Prefettura di Caserta, con 6 amministrazioni comunali e 88 ettari di terra confiscati, messi insieme per realizzare la cooperativa ‘Le terre di Don Peppe Diana’ che si occupa di produrre la mozzarella ‘della legalità’ in un caseificio tolto ad un camorrista a Castel Volturno. Io mi occupavo di una casa famiglia dove si accoglievano bambini rimasti ‘orfani’ per casi di violenza e illegalità. Ma a 18 anni, questi bambini strappati all’innocenza dell’adolescenza, che fine fanno? E allora abbiamo cercato un’opportunità per inserire nel mondo del lavoro le persone svantaggiate, un progetto che le rendesse libere davvero. Nel 2004 visitiamo un bene confiscato alla Camorra a Sessa Aurunca. Scriviamo un progetto che si intitola ‘[i]Comunità di accoglienza per persone svantaggiate finalizzata all’inserimento lavorativo e pet terapy[/i]’. Dopo due mesi ci affidano 17 ettari di terreno. Arriva dal ministero, attraverso il ‘bonus sicurezza’ della regione Campania, la somma di un milione e 20mila euro per il nostro progetto. Furono i Casalesi a manovrare quell’investimento, vennero a riprendersi la loro proprietà e a ristrutturarla senza alcuna norma di sicurezza. Il 29 dicembre del 2008 ci consegnano le chiavi dell’immobile. Io, accettando questo ‘pacco’ dalla Camorra, vandalizzato di nuovo pochi giorni dopo la consegna, avevo reciso la loro catena d’illegalità. Abbiamo presidiato quel posto quattro mesi per tenerlo lontano dai vandali camorristi e lo abbiamo messo a norma. Inventammo con Libera il festival dell’impegno civile e il 20 giugno del 2009 fece tappa proprio sul bene confiscato. 1500 persone varcarono la soglia di un bene della Camorra. Da quella sera portammo i ragazzi diversamente abili a vivere nel bene confiscato. E allora io dico sempre: sì può fare, e se si può fare, cambia tutto. Da quel giorno siamo una comunità di recupero per persone svantaggiate e ci siamo presi al camorrista Raffaele Cutolo anche il nome: non più Nuova Camorra Organizzata ma Nuova Cooperazione Organizzata. Siamo noi ad aver fatto un pacco alla Camorra».
{{*ExtraImg_193867_ArtImgRight_300x192_}}A chiudere gli interventi, il sindaco di Capistrello, Antonino Lusi. «L’intento dell’incontro – ha detto rivolgendosi direttamente alla platea – è stato quello di farvi aprire occhi, orecchie e cervello a quanto si muove attorno a noi. Vi prego di essere vigili affinché all’interno di noi stessi si crei il terreno adatto per cui il culto del farsi i fatti propri e il culto del disinteressarsi marcisca per sempre. Oggi c’è stata risvegliata la coscienza. E a chi stesse pensando che Capistrello non è Sessa Aurunca, io dico che la Mafia sta in mezzo a noi, sta nel Fucino, nella Marsica, ma purtroppo noi ne vediamo solo la coda, a volte. L’illegalità attecchisce laddove c’è il culto del proprio particolare, dell’egoismo. E allora bisogna dire basta». Al ‘grido’ di Lusi si è aggiunto anche quello del vice sindaco Croce: «Noi, a Capistrello, la Mafia non la vogliamo».
Libera è una rete di persone singole, di reti e di associazioni. Anche Capistrello ieri sera è divenuto Libera, accogliendo nella sua testa di comunità il problema che la criminalità organizzata non è un incubo da scordare, ma una mentalità. «Una mentalità dalla quale poi nascono certi comportamenti – ha chiosato il coordinatore di Libera per la Provincia di L’Aquila, Don Aldo Antonelli – come lo scambiare i diritti per favori. Come Caponetto allora, anch’io voglio chiudere con queste parole: la mafia c’ha il fiuto dei soldi, statene certi. Dove c’è denaro, interrogatevi. Là, di sicuro, c’è la mafia».
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