
di Valter Marcone
Pensando al sei aprile di quell’anno, perché ormai l’anno del terremoto è “quell’anno“. Anche a ragione del fatto che è passato tanto tempo che sembra essere passata una eternità. Cinque anni in verità, una frazione insignificante di tempo, ma che assume nel conto del tempo di una vita un peso enorme. Tanto più se su questo tempo pesa dolore, ansia, alternarsi delle speranze, conseguenza di un sradicamento, perdita o assenza di rapporti.
Non va via la nostra
tristezza. Le case svegliate nel cuore
della notte sono ora un reliquario
di ossa e carne, di carne ed ossa
impastate, senza cuore.
Non sostituite il cuore di carne
della città con un cuore hi- tech,
è peccato e fa piangere la carne
e le ossa impastate.
La mia città dorme
al primo sole di aprile
ma la notte fa ancora un po’ freddo.
Come il freddo di quell’altra notte
di voci concitate, di polvere
e di buio. Il buio raccolto
con il cucchiaio, scolato
in un rivolo di vita ricercata, di vita
perduta. E più non dorme
in petto una speranza. Grida forte
ed è come il silenzio assordante
di una ricorrenza, di una memoria,
di un ricordo assolto dalla storia,
processato dagli uomini.
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