La storia dell’Aquila nel respiro delle sue fontane

9 aprile 2014 | 10:16
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La storia dell’Aquila nel respiro delle  sue fontane

Raffaella De Nicola

Sembra di vederla giocare, la storia, su questa scacchiera bianca e rossa, spostare i destini, e non vincere, almeno non nel 1272 quando, per volontà del fiorentino Lucchesino da Aleta e del monaco cistercense Tancredi da Pentima, il cui omicidio la leggenda lega proprio alla fontana delle 99 cannelle, si realizzarono i mascheroni. All’inizio solo la parete frontale e di sinistra, poi quella cromatica bianca e rossa, i colori della città, come a Collemaggio, infine l’aggiunta nel tempo della seconda vasca, del prospetto di destra e la composizione finale di un auditorium di acque all’interno di un trapezio.

Il nome dell’Aquila appartiene a questo luogo, un utero, in realtà, in cui le abbondanti acque sorgive battezzarono, dal nome Acculi , il nascente comune medievale nel monumento civico più antico, mentre i rumori della costruzione dell’Aquila arrivavano sin qui, alla Rivera , dove le lane venivano lavate e l’odore della lavorazione delle pelli penetrava a via del tannino, via del cuoio, via delle conce, nomi che evocano l’attività della Corporazione dei Lanaioli che tanto consolidò l’economia della città. Grotteschi, antropomorfi, caricature fantastiche o reali, i mascheroni sono i protagonisti, dimenticati , di note acquatiche che narrano un progetto coesivo di visione urbana da noi ereditata e non sempre sapientemente difesa.

«Una città nuova si rallegra per una fonte nuova ma anche per un antico fiume», l’Aterno, ora perfetto sconosciuto, ma non prima quando mio padre vi pescava i gamberi, con il sottofondo delle acque rumorose delle cannelle, a temperatura costante anche d’estate, e la copiosa portata.

Ma la storia scorre sull’ acqua, parte dalla Rivera e arriva all’acquedotto di Santanza del 1308, vicino il monastero di S.Giuliano , prima rete idrica cittadina, voluta anche questa da un altro toscano, Guelfo da Lucca, che conduceva le acque, tramite un reticolo di cisterne e condotte sotterranee, alla piazza del mercato, alimentando, nel tragitto che toccava la piramide per l’ abbotto, il rudere a torre del Torrione, le altre fontane. Nei quattro quarti, intanto , si riproduceva lo stesso paradigma: piazza, chiesa, palazzo e fontana con quella di S. Giusta, l’unica addossata alla chiesa con lo stemma del castello di Bazzano, che risulta essere una delle fonti più antiche, vicino la bella raggiera di dodici frati e artigiani deformati nello sforzo fisico di reggere, da allora, il bel rosone medievale.

Ampie le cisterne «a pianta quadrangolare con volte a botte o a crociera» che raccoglievano l’acqua piovana nei palazzi rinascimentali , coevi a un impianto per tingere i tessuti sotto il palazzetto dei Nobili e a un lavatoio a vasca rettangolare nel convento di San Domenico dove una grotta raccoglieva l’ acqua che colava dalle pareti, almeno sino a quando il grande terremoto del 1703, proprio lì, mietendo numerosissime vittime durante la messa della Candelora, interruppe il fluido della vita umana e urbana.

Ma l’acqua trova sempre un proprio percorso, una strada, e rifluì nella fontana di Piazza Palazzo del 1847, poi spostata nel 1903 a Piazza dei Gesuiti davanti il Palazzetto dei Nobili. Così come venne scelto di realizzare un’altra fontana, quella del Nettuno, con le pietre della demolizione del convento di San Francesco, di cui rimane, ahimè, solo la celletta di San Bernardino, proprio per la visita del Sovrano e della Regina, nella nuova piazza, appunto, Regina Margherita nel 1881. Entriamo, seguendo il ciclo perenne e continuo dell’acqua, nell’età moderna, in piazza, con il mercato trecentesco e gli spazi divisi, un tempo, per uso: prediche, esecuzioni, processioni, luogo di raduno durante e dopo i terremoti. “ A memoria storica le due fontane ci sono sempre state” se già l’Antinori parla di un restauro del 1380 della fonte vecchia, quella di piedi piazza, crollata nel grande terremoto del 1703. E’ il ventennio fascista, con le impostazioni volute da Adelchi Serena, a far firmare a Nicola D’Antino le statue gemelle, capo e piedi piazza, le mani strette sulle conchiglie, i delfini che reggono la vasca e l’acqua dove tuffavamo le mani impiastricciate del gelato Florida. Ma è andato oltre, il ventennio, e si è portato il D’Antino anche nella fontana di piazzetta IX martiri e nei due nudi femminili che reggono la conca della fontana luminosa che allungano lo sguardo verso la città, su per il corso, alla cui entrata furono costruiti i due palazzi, porta d’accesso alla concezione urbanistica dell’architettura fascista. Generosa e fresca l’acqua che arriva da sempre ai rubinetti delle nostre case e zio Renato, accaldato dal viaggio da Napoli, voleva sempre, per prima cosa, un bicchiere di acqua aquilana che sembra presa da un ruscello di montagna. Così come noi ragazzi facevamo il giro: la fontanella del Castello, la vasca della villa, l’angelo muto, l’inizio di via Fortebraccio, via Garibaldi, quelle piccole in piazza, Porta Bazzano… dopo aver saccheggiato il bar Scataglini, i maritozzi con la panna, o il Tambo e suoi tramezzini.

E così dai mascheroni federiciani, passando per la pietra, seguendo i tempi e arrivando al bronzo, l’acqua racconta nel suo fluire un’altra storia, che parte dalla fontana madre delle 99 cannelle e arriva al Parco della Memoria dove sarà realizzata, il concorso si è appena concluso, una fontana a Piazzale Paoli, metodicamente chiusa a dicembre e riaperta il 6 aprile di ogni anno, metafora del ciclo che muore e rinasce. Un legame forte, inconsapevole, le lettere della città intrecciate all’acqua, che torna lì dove tutto è partito, alla materia genitrice dove le cannelle fluiscono, il canto delle cento lavandaie raccontavano realtà minori, lì dove si è condiviso un progetto di città, una visione urbana ambiziosa , rispondente a bellezza, davanti un’acqua così trasparente da far invidia all’opaco di oggi e avvolgere di una grande, incredibile, malinconia quella trasparenza, molecola di pura e potente energia, che tutto osava e realizzava.

Un grazie alla “chiacchierata” con Gianfranco D’Alò e Graziella Mucciante.