Marsica

Cocullo: pellegrini e presidenti, dame e briganti

di Gioia Chiostri

A Cocullo il dì di festa, in cui ognuno ha ornato il petto e il crine (dei serpenti) è appena trascorso, eppure la via del ricordo, quella costellata di delusioni, soddisfazioni e interrogativi e visioni, ancora non è stata percorsa del tutto. Siamo tornati sulle tracce del Rito, quello che mette in primo piano la figura del Serparo, andando a pescare un po’ a caso le impressioni che l’evento ha lasciato negli animi dei pellegrini da sempre o per un giorno solo. Il day after di Cocullo ha un unico sottotitolo possibile: l’alba che c’è al risveglio da un lungo sogno notturno.

{{*ExtraImg_198771_ArtImgRight_300x223_}}Serpari a parte, i quali hanno ricevuto, ieri pomeriggio, anche una onorificenza speciale per il lavoro svolto - cattura, mantenimento e rilascio dei serpenti stessi, «dotati ognuno di un proprio ‘marchio’ identificativo, una sorta di simbolo che permette al Serparo di turno di riconoscerli immediatamente dopo la processione e la ‘bardatura’ della statua del santo», spiega Valter Chiocchio, il presidente della Pro Loco cocullese - sono le storie di chi a Cocullo viene per la prima volta, che si dimostrano imperdibili per un orecchio abituato alla spettacolarità.

Il rito, in tutte le sue sfumature laiche e religiose, offre ogni anno una contemplazione perfetta di ciò che vuol dire ‘scendere a patti con l’elemento naturale’.

20 serpari in totale, riconosciuti dalla Regione e soprattutto dalla Guardia Forestale (una sorta di fratellanza atemporale cocullese), 300 abitanti frazione compresa, 40 mila pellegrini circa e 10 membri effettivi della Pro Loco locale. Numeri che, se rapportati, fanno capire quanto sia piccolo e al contempo assurdamente famoso il mito di Cocullo.

«Noi siamo di Ascoli Piceno – spiega una coppia di signori, Vinicio Ciocci e Anita Petrelli, in attesa, ieri, di veder passare la statua del tanto lodato Santo – ed è la prima volta che veniamo a Cocullo. Abbiamo saputo del rito tramite il sito del Comune che è, a nostro avviso, strutturato molto bene. La mattina siamo partiti alle 8 e 30 circa. Dobbiamo dire, inoltre, che, sicuramente, non ci aspettavamo tutta questa gente, anche se la particolarità della processione è attraente. In Abruzzo, crediamo sia l’unico evento di questo tipo. Oggi, ci accompagnano i nostri parenti marchigiani, Luciana e Nello, che hanno saputo del rito tramite L’Eco di San Gabriele, ed anche per loro è la prima volta. Il suono delle campane e l’uscita del Santo dalla Chiesa principale, per noi, hanno significato l’avverarsi di un desiderio di conoscenza».

Incontri sensazionali a Cocullo, come quello dei Briganti della Majella, un gruppo folkroristico di musicisti e cultori delle danze del Centro-Sud Italia. «I nostri costumi - spiegano - non derivano da una constatazione filologica, ma da un semplice piacere per la tradizione, anche quella più oscura. Tramite un docente dell’Università di Pescara, abbiamo conosciuto questo tipo di costumi popolari e abbiamo deciso di indossarli. Quest’anno ci ha invitato a Cocullo espressamente Transita Onlus, che ci ha scelto come simbolo del folk della zona di Pescara. Noi siamo in cinque, anche se a Cocullo siamo giunti in tre per motivi di sicurezza legati al trasporto ferroviario. Qui veniamo, in realtà, ogni anno, spinti da una forza devozionale». Gianfranco, Giancarlo, Giuseppe – i tre briganti musicisti – non dimenticano però una città a loro molto cara. «L’Aquila ce l’ho nel cuore – spiega Giancarlo - da buon napoletano, visto che ho vissuto il suo stesso disastro, ossia il sisma del 1980 circa. Mando un bacio e un abbraccio agli aquilani».

{{*ExtraImg_198772_ArtImgRight_300x402_}}Immancabile la battuta del presidente della Pro Loco, Valter Chiocchio: «Negli anni 80/85 mi ricordo che la gente parcheggiava l’auto fuori la galleria, prima di arrivare a Cocullo, per quanta affluenza c’era. Abbiamo cominciato a lavorare un paio di mesi fa e il successo, ieri, ci ha arriso. Cocullo si ripopola ogni primo di maggio e a noi del paese non può che far piacere, anche perché il rito di San Domenico Abate è un qualcosa di talmente antico, mistico e trascendentale che dovrebe essere condiviso col resto d’Italia. Il giorno prima, il 30, non c’è molta affluenza, solitamente. È proprio verso mezzogiorno del primo di maggio che il popolo di Cocullo diventa internazionale. Alle otto sono cominciati ad uscire i serpari con i serpenti da loro catturati durante i mesi precedenti. Non tutti, poi, possono vantarsi di essere dei serpari, poiché è una pratica, un’abitudine e un modo di pensare che si acquista con anni di esperienza, partendo dalla tenera età. Non a caso molti serpari discendono da generazioni illustri di altrettanti serpari. E’ una dote e un dono che si trasmette di generazione in generazione. La peculiarità di questa festa è che a Cocullo molti esorcizzano ciò che può essere definita la paura della serpe. Eternamente vista come nemica dell’uomo, qui diventa la sua più grande amica. Per i bimbi, ho notato, sembra essere facilissimo entrare in contatto con la natura più ostica e misteriosa. I serpenti possono essere catturati sono nel territorio di Cocullo e solo da cocullesi, secondo una legge regionale apposita. Noi della Pro Loco consegniamo tesserini ‘speciali’ ai serpari di professione che devono essere mostrati agli agenti della Forestale ogni qual volta c’è ne sia bisogno. E’ come un lasciapassare, che rende il rito ancora più protetto e ben organizzato».

{{*ExtraImg_198773_ArtImgRight_300x402_}}Questione Unesco: la pratica va avanti o si è arenata? «Non si è affatto arenata – spiega Valter Chocchio – Anzi alla festa sono per l’occasione giunti tre antropologi che ci stanno aiutando a far avanzare la nostra richiesta, insieme alla professoressa Giancristofaro, la nostra pupilla. Speriamo fortemente che si riesca ad ottenere il riconoscimento dell’Unesco, poiché porterebbe sicuramente più fondi, utili per perpetrare una tradizione che mantiene viva la fiamma di Cocullo. Secondo me, il rito dovrebbe avere dei contributi fissi, anche perché esporta il nome dell’Abruzzo all’estero. Articoli scritti dal Manchester Guardian e dal New York Times ci fanno ben sperare. Un altro problema è quello di non riuscire ad utilizzare tante abitazioni chiuse dei cocullesi che vivono all’estero ed incentivare attività private. Anche se, in Chiesa, quando i pellegrini vanno via, al rientro della statua, e dicono al Santo ‘arrivederci al prossimo anno’ dopo essersi voltati di spalle, l’emozione che si percepisce ci appaga di tutto il lavoro fatto».

{{*ExtraImg_198774_ArtImgRight_300x223_}}«Mio nonno è stato il primo sindaco di Cocullo – spiega Matilde Nanni, giovane cocullese che per l’occasione ha indossato i panni di una dama abruzzese doc - Io sin da bambina assistevo al rito di san Domenico ed è inutile dire che mi è entrato nel cuore. Quando, durante la seconda guerra mondiale, i tedeschi volevano far saltare in aria Cocullo, mio nonno, da solo, saliva in montagna andando a boicottare e maneggiare tutti gli esplosivi affinché non radessero al suolo il paese. Un partigiano della prima ora, insomma. Questo è il primo anno che mi vesto: il costume è quello di una dama abruzzese ed è quello tipico della donna locale. I modelli degli abiti che si propongono sono sempre gli stessi, ogni anno, anche se magari possono cambiare i colori. Il bustino che indossavo ieri ha la bellezza di 120 anni, un’emozione unica. Mio zio è un serparo doc, io avrei il piacere di diventarlo visto che è una qualifica che non guarda né al sesso, né all’età. Quest’anno sono diventata ancora più cocullese forse, perché ho portato alto il nome dei miei nonni che, purtroppo, oggi non ci sono più».

La favola di Cocullo torna il prossimo anno. Nell’attesa, non perdiamo l’occasione di andarlo a visitare in una giornata qualsiasi. I paesi vanno supportati anche quando le luci della ribalta si sono spente per lasciare spazio alla quotidianità più tipica. Mai demordere e mai dimenticare. Le origini sono il gioiello più prezioso che gli avi lasciano in dote.