
di Gioia Chiostri
Sempre più piazza e sempre meno pezza per i vuoti quotidiani. Facebook è diventato il vero rottamatore delle vecchie abitudini. Prima si beveva in un bar, ora dinanzi lo schermo diafano del computer. Prima si leggeva da soli, sdraiati sul proprio letto o, al massimo, seduti in metrò, col rumore metallico di sottofondo, ora, invece, si legge su Facebook (e nemmeno un libro intero, ma brandelli di esso). Prima si andava ai musei, ora, che innovazione! I musei sbarcano su Facebook. Infine: su Facebook, anche i vecchi ricordi tornano nuovi attraverso la digitalizzazione di quelle belle foto scattate a loro tempo con una polaroid . E fin qui.
Ma il bello del ballo è che tutto ciò è anche regolamentato. Ossia: la [i]neknomination[/i], come viene definita dai più, appare come il nuovo gioco dell’oca virtuale, viziato dalla logica di massa che, nato in origine in Australia – il nome di fatti fa riferimento al collo della bottiglia di birra – pone in essere determinati comportamenti da mettere in pratica solo se nominati su FB. Dopo il binge drinking, (il bere 4-5 cocktail di fila per il gusto di “sballarsi”) la neknomination è nata come una sorta di sfida alcolica e multimediale che si alimenta in modo virale. I bad boys della rete, insomma, convolano a nozze.
Se si viene citati da un amico su Facebook con un tag, si ha un giorno di tempo (24 ore) per raccogliere la sfida e bere, “nominando” a propria volta tre persone che, se in debito, metteranno in pratica lo stesso comportamento. Chi perde (non riesce a finire la birra oppure rinuncia) paga, offrendo a chi lo ha sfidato un cartone di birra. Sottrarsi alla richiesta, viene, a quanto pare, vissuto dai giovani come segno di vigliaccheria o di scarsa inclinazione al divertimento. Ma , birreria virtuale a parte, poi arrivò la cultura.
Qualcuno, cioè, decise che bere riprendendosi con la webcam non era poi così educativo, ma postare frasi di libri letti, sì. Nacque così la nuova nomination ([i]book nomination[/i], per l’esattezza) moralizzatrice nei confronti della prima. Le regole del gioco sono esattamente le stesse: gli amici si nominano in rete e chi è “taggato” deve a sua volta nominare altre tre persone. Il motto è: ubriachiamoci di libri. Il sistema ha permesso, forse per la prima volta, una veicolazione velocissima di alcune fra le frasi più belle e incisive di libri, diversamente sconosciute. Sottrarsi, anche qui, equivaleva ad un’ammissione di scarsa o nulla cultura. E cosa c’è di peggio che l’essere etichettato come un utente anonimo e incolto?
Successivamente, il critico d’arte in senso lato che c’è in ogni uomo benpensante, ha fatto capolino, dicendo: ma la cultura, baldi giovani, mica è solo lettura! Ed ecco che si cominciò a rispondere a colpi di quadri ai destri dei libri. Un tagga tagga generale che ha portato alla creazione di stupende gallery di ritratti e non solo, più o meno noti, che troppo spesso, magari, marciscono fra le pagine di volumi trasandati. Un modo, tout court, per rievocare il Bello.
Finché non fu l’arte fotografica a sbarcare sulla piattaforma blu. In barba a Daguerre, infatti, i noi di qualche tempo fa hanno letteralmente tappezzato le bacheche di tutti i tizi, caii e sempronii virtuali. Le regole sono sempre le stesse, ma, questa volta, l’oggetto taggato è una fotografia, la più rappresentativa della propria beata infanzia. Un fil rouge che più che dipanarsi, si rafforza. Il popolo di Facebook ha voglia, insomma, di mostrarsi sempre di più e mostrare sempre più la parte poco conosciuta di sé. Volontà di umanizzare i profili sentiti forse troppo scollati da sé perché artatamente costruiti? Lo chiediamo a [i]L’Intellettuale Dissidente[/i], un web-newspaper nato nel 2012 e in forte crescita espansiva, sbucato fuori come primo progetto assoluto dell’Associazione “ControCultura”. Un giornale ‘think-tank’ che ha guardato dal basso all’alto – perché per conoscere la strada la si deve sempre prima percorrere di persona – il fenomeno virale, snocciolando acute riflessioni. Marco Acernese, collaboratore del giornale prima citato, afferma: «E’, quello della [i]neknomination[/i], l’ennesimo, deprecabile epifenomeno di un conformismo asfissiante e dilagante, infiltratosi irrimediabilmente e da lungo tempo in ogni categoria sociale dietro le spinte uniformanti della televisione. Veicolato, in questo caso, dalla rete. Assume, nella logica perversa dell’apparire ad ogni costo, una funzione di rito tribale di iniziazione, a garanzia di una permanenza attiva nella società che, come in un’asta al ribasso, sempre meno è assicurata da prodezze artistiche, scientifiche o umanitarie. Si può affermare che essa costituisca l’ultimo tic di una sempre più autodistruttiva omologazione ossessivo-compulsiva, che quando si manifesta in formato anglosassone, come in questo caso, è anche intrisa della peggiore volgarità da osteria».
Una voce contro i fiumi di parole di turno. Non c’è cultura nelle nek nomination? E’ solo volontà inconscia di sentirsi parte di un sistema, in fondo, sbagliato? Umberto Eco distinse, nell’oramai lontano 1964, fra intellettuali Apocalittici e Integrati. Rapportato al tempo di oggi, la distinzione generalista è fra chi accetta fino allo sfinimento la vita social e chi la ricusa, pensando che il futuro debba fare ancora rima con persona.