
di Gioia Chiostri
Una foto che ritrae dimore semivive e gru pendenti strappa il terzo premio in un concorso artistico di rilevanza nazionale. Avere a che fare con l’arte, averla non in tasca ma in testa, sentirsela come una nuvola carica di tensione elettrica sul cuore è un qualcosa che pochi hanno la fortuna di provare. Oggi, ad un passo dalla tragedia e a un passo e mezzo dal fantasma del futuro, esiste chi, fortunatamente, ha abbandonato il pensiero del ‘[i]se potessi[/i]’ e abbracciato quello del ‘[i]posso farlo[/i]’. Federica Brizzi, 16 anni, studentessa del Liceo Artistico Aquilano ‘F. Muzi’, non sembra portare sulle spalle il fagotto del talento. Eppure ne ha e anche molto.
La sua storia è cominciata un po’ per caso. A Natale, guardando fuori dalla finestra di casa sua, ha catturato con il colpo d’occhio il paesaggio aquilano del post-terremoto. Una distesa di abitazioni in ricostruzione e le gru a fare da spartiacque fra le case. «Quel che vedevo – spiega una timidamente sorridente Federica Brizzi – affacciandomi alla finestra, era un buio pesto che faceva da sfondo e delle ‘palle’ di luce qua e là, provenienti dai centri commerciali. Mi son detta: se avessero acceso tutte le gru dell’Aquila, adesso la città sarebbe completamente illuminata, forse anche più di prima. Sono più gru che case oggi, a conti fatti. Sotto il periodo di Natale, sarebbe stato anche più divertente, no?». Questa immagine, complessa metaforicamente, se vogliamo, artefatta con photoshop e corredata da una grafica impeccabile, ha vinto il terzo premio del concorso bandito dal Liceo Artistico Boccioni di Milano.
Il bando del concorso ‘Filo Rosso’, indetto dal Liceo milanese ‘Boccioni’ – XVIII edizione – prevedeva la selezione di opere o lavori artistici (realizzati con qualsiasi tipo di tecnica) tra gli studenti dei Licei Artistici di Milano e delle Province di Milano e Monza-Brianza, Como e L’Aquila. Una volta scelte, le opere sarebbero state esposte al Museo Pecci, spazio espositivo distaccato del Centro per l’Arte contemporanea Luigi Pecci di Prato. Una sfida genuina, talentuosa e, soprattutto, meritocratica. Tant’è che la vittoria, come accade il più delle volte, è giunta assolutamente inattesa. Una giuria di spicco quella che ha analizzato i lavori studenteschi. Da Gabriella Brembati, gallerista e curatrice della Galleria “Scoglio di Quarto” ad Antonella Contin, Ph.D. in composizione architettonica e urbana, ricercatore presso la Scuola di Architettura e Società del Politecnico di Milano.
Opere fotografiche, di pittura, opere video. Una battaglia a colpi di creatività. Le due aquilane, uniche per altro a partecipare come rappresentanti della loro scuola, hanno vissuto fino al fondo del calice della vita questa esperienza milanese. Federica Brizzi – pallavolista e cavallerizza nella vita – così racconta l’inizio dell’avventura meneghina: «Siamo state ospiti della vicepreside del Liceo, una persona squisita. Non era la prima volta che vedevo Milano in realtà; andai lì già una volta per delle gare di equitazione; è una città che mi stupisce sempre. Inoltre, gli studenti del liceo e gli stessi docenti si sono dimostrati cordialissimi con noi ‘forestiere’. Una bella città, a tratti sensibile, per nulla fredda, come molto spesso viene descritta. Nostro angelo custode, che ci ha seguito per tutta la realizzazione dell’opera, è stato il professore Sergio Maritato. Pignolo al punto giusto, ci ha guidato alla perfezione. Lui insegna disegno geometrico, ma nella vita è anche un fotografo di fama. E’ a lui che dobbiamo molta della nostra determinazione». Nove ore di viaggio per raggiungere la meta. «Arriviamo a Milano alle 5 e mezza di mattina. Elena Radice, una docente del liceo, è colei che si è incaricata di ospitarci. E’ una persona che porterò per sempre nel cuore. Ci ha trattato con i guanti bianchi».
La sua compagna di classe, nonché collega d’arte è Chiara Cesarini, l’esperta di ‘grafica’ della situazione.
‘[i]Il paesaggio tra mutazione e mutamento, etica ed estetica. Derive e nuove ideologie del contemporaneo: soluzioni e nuovi immaginari. Filo rosso che unisce[/i]’. Questa la tematica del concorso artistico, presa a riferimento per la creazione del lavoro vincente. L’opera (in foto) si intitola Città. Nessun riferimento a L’Aquila, o alla tragedia.
{{*ExtraImg_205967_ArtImgRight_300x169_}}«Quando fece il terremoto – racconta Federica – frequentavo la quinta elementare. Ho vissuto la mia adolescenza fra le dimore in ricostruzione. Per me, il filo rosso dell’Aquila, ossia l’elemento che unisce tutti i pezzi della mia città, è proprio l’immagine della gru, tant’è che nell’opera è stata evidenziata di rosso, proprio per farla spiccare nel mezzo di tante case semidistrutte. Ciò che è stato partorito è quello che immaginai la sera di Natale. Il rosso è un colore forte, contrastante. Abbiamo dato vita a quella che io chiamo una protesta silenziosa, che va girando per i vari musei d’Italia, sollevando coscienze e pensieri. Una sola opera in gara da L’Aquila, la vittoria è stata sudatissima».
L’immagine, un metro per 25, ha tutti i crismi per divenire un simbolo di questioni irrisolte. Il prestigio di esporre nel museo Pecci, l’orgoglio di vedere la propria opera finire su di un catalogo artistico, che uscirà a novembre, sono conquiste non da tutti i giorni, che cozzano con la vita naturale di una sedicenne.
La stampa che è stata decisa per la foto non è stata la classica lucida, ma una stampa opaca, in modo che risaltasse tutti i dettagli messi in luce. «A livello visivo è stata l’opera, a mio avviso, più apprezzata. Siamo state premiate fra le mura del Museo, quindi una grande emozione. Il primo premio è stato vinto dall’opera di una ragazza, una sorta di finta fotografia disegnata a mano. Secondo premio, invece, un progetto video. A novembre, senza dubbio, torneremo a Milano per avere tra le mani il catalogo ultimato». Le opere selezionate, fra cui la foto aquilana, saranno esposte presso il Dipartimento di Architettura e di Studi Urbani del Politecnico di Milano, l’Urban Center di Milano, il Liceo Artistico Boccioni, negli spazi previsti nell’ambito del progetto ‘Artepassante’e presso la Galleria Scoglio.
Lunga la strada che si cuce col pensiero, forse più lunga di quella che si percorre in 100 anni d’umanità. Federica, durante la premiazione, non credeva al suo udito. Una targa enorme a sancire il trionfo. «Il Liceo Boccioni è quanto di più moderno e artistico nel senso stretto della parola si possa immaginare. E’ bella anche la sua storia: un tempo fu, praticamente, un ricovero per sordomuti. Il fatto, poi, di essere già arrivate fra le prime 20 opere selezionate, dopo la prima scrematura da parte della giuria, per noi, come scuola, fu già un magnifico trionfo. Io ero a cavallo quando me lo dissero: non ho creduto alle mie orecchie. Io ho fede in ciò che faccio, forse lo dò a vedere poco. Ma questo figlio, la foto della mia città, è davvero qualcosa di cui andrò fiera in eterno. Non vengo da una famiglia di artisti, quindi per me la creatività è un mondo semisconosciuto, ma attraente. Le opere scartate le abbiamo viste esposte nella ‘zona docce’ dell’ex ricovero. Erano sublimi, tant’è che non ci capacitavamo di come una foto ritraente quel paesaggio che per noi valeva un milione di cose, valesse lo stesso anche per gente laica, non aquilana». Al concorso hanno partecipato circa 100 studenti. «Una bella competizione».
«Io, nel futuro prossimo – ci dice Federica – mi vedo come designer, ma sempre dedicando la giusta attenzione alle mie due stelle polari della vita: la pallavolo e l’equitazione. Il mio cavallo si chiama Salto». Un nome che fungerà, forse, si spera, da buon auspicio per Federica Brizzi. Raccontare una storia è il modo migliore per viaggiare. O far viaggiare. E’ il foulard invisibile del pensiero che vien fuori da un magico cilindro di cartone. Se annodato attorno ai polsi, potrebbe trasportare lontano. La foto di Federica, anzi la sua opera, progettata e realizzata con l’aiuto di un docente che ha creduto nell’idea in primis, farà il giro delle altre città. Ma ne ricorderà una. O tante, se è vero che da tutte le storie si impara e che tutte le storie finiscono con un altro c’era una volta.