
di Enrico Cavalli*
Nella Vallata amiternino-forconese, a partire dal IX secolo, oltre le incursioni barbariche e saracene e dissoltasi la feudalità carolingia, l’incastellamento d’età normanna aprì ad una fase di ripresa sociale. La osmosi fra abbazie e potere civile per via della transumanza e i pellegrinaggi verso la Terra Santa preludeva alla simultaneità di costruzione laica ed ecclesiastica dell’imminente Comitatus aquilano.
Indubbiamente, la integrazione degli antichi contesti amiternini e forconese si registra nella lettera di papa Gregorio IX nel 1229 al vescovo Tommaso, ivi insediato tre anni prima per acconsentire alla nuova città nel pianoro di Santa Maria di Acquili, appartenente al castello di Pile e prospiciente l’Aterno; un fatto di per sé significativo in quanto questa cospicuità parrocchiale fu consacrata da un altro episcopo forconese, Odorisio, nel 1195.
Il provvedimento papale ebbe tenore esecutivo posto che nel luogo in sequenza si registrano eventi architettonici e sociali che vanno dalle chiese di San Pietro di Coppito, San Nicola D’Anza e San Giorgio di Goriano Valle poi Santa Giusta di Bazzano, alle piazze mercatorie gravitanti l’antico foro romano; dall’arrivo dei transfughi della baronia marsicana di Celano sanzionati da Federico II all’approdo successivo dei Francescani anche loro costretti dall’influsso cistercense ad abbandonare le montagne. Quello che era stato identificato ad agglomerato satellite di Acquili-Accula si fondeva con la entità urbana frutto della volontà delle genti amiternino-forconesi di sottrarsi ai controlli delle baronie locali. Da questo crogiuolo di energie antitetiche alle vessazioni feudali, nacque allora Aquila ed elevata a città-territorio. In simile progetto libertario rientrandovi necessariamente le adesioni del papato possessore di quelle terre per il Privilegium di Ottone I e delle stesse imperialità. Ad accoglimento delle richieste dell’urbe aquilana, la cui forza attrattiva andava oltre i castelli limitrofi contribuenti alla sua fondazione, stava il pontefice Alessandro IV.
La Bolla papale del 22 dicembre 1256, oltre ad incitare alla resistenza aquilana contro le pretese dell’imperatore Manfredi, ordinava il trasferimento della sede episcopale da Forcona alla realtà urbana così aggregativa di emergenze della vallata aternina. Formalmente, accadeva che la diocesi forconese prima dedicata a San Massimo di Aveja assunse all’atto della traslazione ad Aquila il nome di San Giorgio. Tale duplice intitolazione della cattedrale aquilana discendeva dal fatto che essa originariamente venne insediata in una chiesa dedicata a San Giorgio, verosimilmente quella degli abitanti intra moenia bazzanesi e di Goriano Valle e sita alla porta di Bazzano; qui, sorse la primitiva sede diocesana di Aquila che abbinava al patrono subentrato, San Massimo, il titolo del San Giorgio, quindi, la cointitolazione sarebbe stata coltivata in ambito forconese e prima dell’unificazione alla diocesi amiternina del 1257.
Nel compromesso della Bolla papale, l’ultimo pastore forconese Berardo Da Padula, risiedeva all’ex chiesa di San Giorgio ed ora pure di San Massimo dove si depositarono i fondi ed archivi del clero. Da Padula, andava a sedere alla nuova e costruenda cattedrale della più ampia diocesi che due mesi dopo conglobava anche le residuità ecclesiastiche amiternine onde svilire le pretese giurisdizionali reatine.
Gli Arcipreti amiternini Tommaso per San Vittorino, Andrea per San Paolo di Barete e Tommaso per San Pietro di Popletum giurarono nel gennaio 1257 con capitolazioni rogate dal notaio Paolo Romanelli obbedienza al vescovo e passando nella diocesi aquilana non solo a condizione di salvacondotti dalle vessazioni vescovili reatine. I tre prelati mantenevano le prerogative di protonotari apostolici e l’uso dei pontificali e di conferimento degli ordini minori, vieppiù, giurisdizione su chiese e persone della diocesi amiternina sicché intendendola esercitare per tutti i loro successori ed anche su quanti si erano trasferiti dai castelli diruti ad Aquila.
A denotazione di una parità con le connotazioni religiose forconesi, la generale ecclesialità amiternina ottenne la chiesa di San Biagio dietro l’area della cattedrale ed avendo il sagrato nella piazza Maggiore e del mercato di Aquila. In sostanza, se la sede apostolica aveva d’autorità trasferito la sede episcopale, il clero amiternino valendosi di una prassi sui iuris nei riguardi di Roma, autonomamente, volle porsi sotto la giurisdizione vescovile aquilana purché gli si riservasse i precedenti privilegi.
Per tornare al patto sancito dinanzi al notaio Romanelli, il vescovo Da Padula ed arcipreti amiternini, forse, obliarono di affiancare alla nuova sede vescovile di San Massimo il titolo di San Vittorino, né lo attribuirono alla loro chiesa denominata appunto di San Biagio.
La unificazione giurisdizionale dell’ecclesialità si adeguava alla nuova realtà politico-amministrativa. Emerge la compenetrazione fra storia municipale e religiosa nelle modalità dell’architettura delle chiese negli assetti urbani. Ad Aquila si aggiunsero gli insediamenti provenienti dai feudi del contado, poiché ogni nuovo agglomerato ebbe la piazza, fontana e chiesa, appunto, come poli di riferimento delle preesistenti relazioni degli abitanti con gli antichi castelli e perciò detti confocolieri. Anzi, potevano riconoscersi più chiaramente le fasi costruttive delle chiese rispetto alle abitazioni e tracciati viari di una città ricca di edifici cultuali nei vari stili dal romanico al gotico, giusta la cattedrale quale centro originario di cotanta spiritualità comunitaria.
*storico