La montagna della lotta e dello spirito

27 agosto 2014 | 13:26
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La montagna della lotta e dello spirito

[i]Appunti di un viaggio. Tre racconti per conoscere e riflettere insieme sulle origini, le tradizioni, i colori e la gente della nostra terra.[/i]

Vincenzo Battista ci conduce in un viaggio sublime che dalle periferie dimenticate della città dell’Aquila ci porterà, in tre appuntamenti, ai luoghi di un altro Gran Sasso. Appunti di un viaggio. Tre racconti per conoscere e riflettere insieme sulle origini, le tradizioni, i colori e la gente della nostra terra. Vincenzo Battista, una delle firme più autorevoli e imponenti del Capoluogo, ha composto per la settimana della Perdonanza un trittico di enorme pregio per deliziarci con le armonie delle sue parole, con le emozioni delle sue descrizioni, con la concretezza vivida delle immagini che crea descrivendo il nostro mondo, la nostra storia e la nostra gente.

Non possiamo che lodare e apprezzare l’opera di Vincenzo e ringraziarlo di quanto ci ha dato l’opportunità di scoprire e ‘gustare’ della nostra storia.

[i]Roberta e la redazione del Capoluogo[/i]

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Leggi la prima puntata:

[url”La luna sopra gli eroi di Santa Croce “]http://ilcapoluogo.globalist.it/Secure/Detail_News_Display?ID=108423&typeb=0[/url]

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La montagna della lotta e dello spirito (Seconda puntata)

di Vincenzo Battista

Si gira indietro con la testa verso di me, mentre un po’ goffo trotta, barcollando, sulle zampe già robuste, per poi improvvisamente fermarsi e riprendere la marcia su un lembo della provinciale del Vasto, pendici meridionali di Monte Jenca. La madre, sul ciglio della strada, ferma con il torace dritto e la testa alzata, ansiosa, lo segue, assume la postura, avverte la minaccia che può crescere in quel fuori programma, in quell’orologio biologico dei predatori che si è scomposto tanto da trovarsi lì, in quella attività diurna e poi notturna che è una regola e ha un valore caratterizzante della specie. Ma qualcosa è andato storto e la lupa, trascorsi altri istanti, dopo la sua allerta e dopo avermi fissato, recupera il cucciolo di lupo, lo fa scivolare sul fianco, gli apre la pista, aumentando sempre più l’andatura, rapidamente, scartando il terreno. Risalgono i prati della montagna, le macerine in pietra e i terrazzi di contenimento delle terre, per dileguarsi, azzerare il “contatto” non previsto, resettare la sua fragile adattabilità, rientrare nell’etologia di mammiferi al vertice della catena alimentare, nell’ecosistema che non prevede nessun incontro con la specie umana, ad eccezione di un’unica religiosità popolare, mitica per molti versi, secolare, dai tratti salienti per il fervore esercitato, che da queste parti si è trasformata addirittura in una scultura portata in processione: San Franco di Assergi con il lupo ai piedi, non più minaccioso, ma sottomesso contro la sua stessa natura, simbolo di quello che qui è possibile, e non altrove.

Più su, in quota, a centinaia di metri, forse i due lupi si uniranno alla struttura sociale del branco, rientreranno nel corridoio faunistico dei predatori che lo percorrono, posto tra il monte Jenca e il Chiarino, le Malecoste e Pizzo Cefalone: un’autostrada di crinale per i carnivori, con tanti “autogrill”, le “dispense” di mandrie e greggi che stazionano e cercano di difendersi dagli attacchi.

Il vitello nato da poche settimane scalcia, non vuole farsi prendere in località “Torretta” (1717 m.), galoppa sul prato, ma poi sfiancato si ferma. L’allevatore mi mostra sulla zampa posteriore la carne asportata, i morsi, il sangue che scende sulla zampa. Ha avuto fortuna, dicono. I lupi, attaccando, hanno provato a separarlo dalla mandria che ha resistito, formando una linea di difesa con dietro i vitelli. E’ andata bene. Dovrà essere medicato giù a valle in questa montagna della sopravvivenza, della lotta, ma anche dello spirito, dei grandi scenari emozionali che declinano sui due versanti, mito della contemplazione: un grande parco letterario, di micro storie e visitazioni, “incontri” che inglobano tutto il versante occidentale del Gran Sasso fino all’insediamento dei casali di San Pietro, fino alla chiesa costruita in pietre della Jenca e alle piccole narrazioni che raccontano il rapporto particolare, denso di aneddoti, e un nome: San Giovanni Paolo II.

La donna davanti al piccolo edificio religioso è inginocchiata, ferma, assente da tutto quello che la circonda; sembra un’icona con le mani giunte; sembra assomigliare, nella sua postura, ad una Madonna adorante del XV secolo, quelle policrome, dorate, in legno intarsiato e dipinte, dell’arte sacra abruzzese. Rimarrà così, davanti al santuario di Papa Wojtyla, che lì vicino sedeva sulle pietre dell’edificio allora diruto, cadente e abbandonato, mentre qualcuno gli copriva le spalle con un manto bianco, davanti ad un fuoco acceso, osservava il paesaggio, il luogo dell’essenza, delle riflessioni e delle identità per i suoi scritti sulla montagna: la sfida, la conquista – scriveva il Papa – il cammino dello spirito chiamato ad elevarsi dalla terra al cielo, apre i suoi segreti a chi ha il coraggio di guardare dalle cime, lambirle con gli occhi e carpire i significati, come San Pietro della Jenca, divenuto in pochi anni un sito elettivo, di pellegrinaggio, di tanti, che risalgono la montagna sulle tracce immateriali di un bene culturale emozionale, elevato, “tracciato” da San Giovanni Paolo II, nella solitudine delle sue meditazioni.