
di Enrico Cavalli
Nella sua voluminosa trattazione su ”L’Architettura religiosa aquilana”(1988),
Monsignor Orlando Antonini, afferma la cospicuità di numero delle chiese a
L’Aquila, non già il simbolo di un potere religioso preponderante sul potere
laico, bensì si spiega d’un canto con la vitalità della locale comunità
cattolica, e dall’altro dalle modalità attraverso cui la città originò.
Come
che siano le evoluzioni di queste dialettiche fra le gerarchie ecclesiastiche
e
quelle civili, di cui proprio la Perdonanza celestiniana è stata
particolarmente intrisa a cominciare dalla controversia relativa alla lettura
della Bolla da parte della massima autorità municipale, resta vero che le
iniziative ecclesiali siano state monopolizzate dagli Ordini religiosi il cui
portato morale e materiale ha lasciato tracce indelebili nella coscienza
collettiva aquilana; si pensi alla monumentalità delle Cannelle alla zona
originaria di Accula disegnate dal cisterciense Tancredi Da Pentima nel 1272.
Nondimeno, il più indigeno fra gli Ordini religiosi stanziali è quello dei
Celestini con un grado di integrazione nel tessuto civico fino ad un certo
punto attribuibile al peso carismatico del suo fondatore Pietro Angelerio.
Come
risaputo, ottenuto a Lione nel 1280, dal Papa, la denominazione celestiniana
per la sua comunità di fraticelli benedettini, l’umile eremita morronese, si
faceva concedere dal vescovo aquilano Nicolò da Sinizzo, nel 1287, la
costruzione di una abbazia presso il Colle Maggiore, laddove, pure incoronato
pontefice non reputava di sganciare dall’Ordine originario i propri
confratelli
giusto il contenuto della Bolla”Inter Sanctorum”:”Nos qui(…)in ecclesia S.
Mariae de Collemajo Aquilensi Ordini S. Benedicti(…)”. La facoltà di ricevere
libere oblazioni ed esenzioni garantita proprio dal Papa morronese, apriva
inevitabilmente la strada della legittimazione dell’Ordine celestiniano che
esercitava man mano una ampia giurisdizione in monasteri del contado
aquilano;
veniva assunta la femminile claustralità del monastero di San Basilio secondo
la leggenda fondata da Equizio l’itinerante monaco di Marruci e coevo di
Benedetto Da Norcia, nel 496 d.C., tanto eternato dal Santo papa Gregorio
Magno.
Nel secolo XIV, a fronte di un autoeclissarsi delle autorità vescovili
e
dei traviamenti dell’Ordine domenicano aderente al Grande scisma d’Occidente
del 1378, la componente dei Celestini quasi egemonizza la struttura del
comitatus aquilano ed anzi assai più che in campo religioso si esplicita in
quello politico-amministrativo con le figure dei monaci Matteo, Marino e
Giovanni, che si succedono alle cariche di camerlengo e tesoriere nonché
compilano la prima raccolta ufficiale di diplomi, bolle e sigilli municipali.
In questa intima e consapevole compenetrazione fra la tiara e il gonfalone,
di
cui i monaci celestiniani si trovano a capo per dirla con lo storico Raffaele
Colapietra, ebbene, tanto attraverso il governo delle Arti che nella
resistenza
al capitano di ventura Braccio Da Montone battuto ad Aquila nel 1424, i
confratelli di Celestino V incarnano lo spirito comunitario della libertas
aquilana.
A lustrare le qualità in campo teologico e umanistico dei celestini
furono i venerabili Luca Mellini, Pasquale Tristabocca e Bassando di Besancon
che da Parigi venne a riordinare la disciplina dei suoi confratelli ricevendo
pubblico encomio da San Giovanni Da Capestrano, come Muzio Alfieri e Carlo di
Danzica valenti pittori e restauratori della abbazia.
Gli sviluppi socio-
economici dell’Ordine celestiniano, in virtù della sua matrice benedettina,
erano sottesi alla diffusione della civiltà rurale; in senso sia morale che
materiale, la cultura celestiniana innervava della esaltazione del lavoro dei
campi l’intero comitatus aquilano caratterizzato in chiave prettamente
agricolo
almeno sino all’avvento dell’Osservanza francescana che tramite i Monti di
pietà vivificava le arti liberali della municipalità nel cosiddetto secolo
d’Oro di Aquila divenuta la seconda città del regno napoletano; a minare la
coesione della realtà celestiniana locale, più che la pervasività della
componente francescana che agiva non in alternativa alle altre partizioni
religiose, come pure il risentire naturale dei contraccolpi negativi
cagionati
alla città dal fiscalismo spagnolo, stava come dice padre Giacinto
Marinangeli,
una problematica in nuce, cioè, quella diarchia cagionata dalla improvvida
disposizione dell’antipapa Clemente VII nel 1378, che concedeva alla fiorente
comunità celestiniana parigina oltre a marcati privilegi di autonomia
legislativa, la supremazia sulle abbazia aquilana e sul monastero di
Sant’Eusebio a Roma. Erano gli ultimi bagliori di forza dell’Ordine, proprio
le
contese fra l’abate di Collemaggio ed i vescovi aquilani in ordine all’uso
del
pontificale e che invero si conclusero con l’interdetto lanciato dalla
diocesi
nel 1720 ai celestini. Ormai, la diarchia aveva indebolito strutturalmente
l’Ordine celestiniano che dunque si esponeva alla sua irrecuperabile
dissoluzione durante la fase giurisdizionalista di re Carlo III di Borbone e
per il rescritto napoleonide del 1808, per inciso, in età della
Restaurazione,
concedendosi ai padri Conventuali nel 1820 il complesso di Collemaggio.
Veniva,
affidata alle celebrazioni della Perdonanza ed alle relative rievocazioni
storiche il portato della tradizione dell’Ordine di Pietro da Morrone che in
modo così peculiare hanno rappresentato la dialettica tra potere religioso e
quello civile nel contesto aquilano. Si comprende quindi l’appello che ancora
alla fine degli anni Trenta del secolo scorso, in un pregnante volumetto di
storia religiosa aquilana, l’insigne professore e sacerdote Alfonso
Catignani,
lanciava affinché”l’Ordine dei Celestini che fu gloria nostra abbia a
risorgere
in questa forte e gentile terra d’Abruzzo”.