Street Art a L’Aquila. Perché no?

12 settembre 2014 | 12:00
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Street Art a L’Aquila. Perché no?

di Raffaella De Nicola

Fu un’intera città ad incuriosirsi. Ed emozionarsi. Andavano lì, davanti la chiesa di Sant’Antonio a vedere piano piano emergere dalla folla dei colori i suoi singolari omini, portando cibo e bevande all’americano. Fu un momento collettivo: la vernice donata, la parete messa a disposizione da una diocesi non troppo conservatrice, se si considerano i tempi e l’omosessualità dell’artista. Era il 1989 e i 180 metri quadri sono diventati da allora non solo patrimonio della città di Pisa, ma della comunità internazionale se il Ministero dei Beni Culturali li ha tutelati con un vincolo, piuttosto raro per l’arte contemporanea, la prima volta per un murales. E’ il [i]Tuttomondo[/i], oggetto di restauro qualche anno fa, testamento artistico di Keith Haring, newyorkese, che di lì a poco morirà giovanissimo, apripista insieme a Basquiet e Hambleton, del movimento di strada degli anni Ottanta.

Idiosincrasia alle regole, canoni ribaltati, audacia, rabbia. Questo l’eterno movimento della creatività. Eclatanti le rotture dei grandi geni. Daniele da Volterra “Il Braghettone” costretto a coprire le nudità scandalose, con le braghe appunto, del suo amico Michelangelo nella Cappella Sistina o i visi rossi e popolari, i piedi gonfi e nudi dei Santi del Caravaggio che creavano scandalo e smarrimento. Una storia conflittuale, controversa da sempre, che osa e spezza l’ordinario, ed ora passa attraverso le mani e gli strumenti dei writers.

Saranno altre le generazioni che stabiliranno quanta della loro produzione sia arte, costume o consumo, spesso contaminata, è vero, da improvvisazione. Noi sappiamo solo che si sono mossi, all’inizio, con il buio della notte, in piena illegalità e che al loro passaggio le inquietudini urbane contaminavano l’ambiente, che a sua volta le alimentava, con i loro tratti aggressivi, le geometrie spesso ossessive, i colori feroci che escono contro e ti assalgono. Poi le prove tecniche di pace ed i recenti accordi.

Ora sono le amministrazioni a ricorrere a questa forma di arte che ha il potere di cambiare il volto dei luoghi. Si parla di riqualificazione urbana lontana, lontanissima, dai graffiti di vandali che deturpano, e ha ragione chi vuole difendere la città dai segni osceni, ma che sono altro dal messaggio che c’è, e vuole esserci, dietro la street art: un linguaggio che accusa i corti circuiti, file difettosi, database spezzati, virus che infettano il sistema, disconnessioni e memorie che non si salvano, archivi che non si aprono e alla fine il reset della street art che si contestualizza nello spazio, crea un impatto e ributta sul muro, come un affronto, un urlo, un grido il colore della vita di strada.

Piazza vocata, quindi, quella del progetto case, dove saranno colorate le pareti, bronx, sì, ma dell’umore umano, non luogo per eccellenza, isolamento, diaspora dell’uomo moderno, morte antropologica di creatività. Una povertà sociale, nuova purtroppo, qui a L’Aquila, che verrà impastata nel barattolo dei colori, pettinata dall’elaborazione dei grandi circuiti dell’immaginazione che scrolleranno anche solo la durata del festival, che sarà sotto la guida di una curata direzione artistica, l’immobilisimo cittadino con la complicità di linee incerte o precise, dritte o curve, che lasceranno l’impronta di un passaggio, emblematico di nuovi orizzonti, nel linguaggio universale dei colori che sfondano, da sempre, le divisioni dei muri.