La luna di Giacomo Leopardi

13 ottobre 2014 | 14:21
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La luna di Giacomo Leopardi

di Valter Marcone

PRIMA PARTE

“[i]Palazzo bello. Cane di notte dal casolare, al passar del viandante./ Era la luna nel cortile, un lato

tutto ne illuminava, e discendea/ sopra il contiguo lato obliquo un raggio…[/i]”.

Così si apre la prima pagina del diario di Giacomo Leopardi, scritta tra luglio e agosto del 1817.

{{*ExtraImg_219714_ArtImgRight_300x312_}}Leopardi ha appena compiuto 19 anni.

Nel 1817 comincia a tenere un diario e proprio sulla prima pagina riporta un frammento del suo “Principio di un rifacimento del saggio sopra gli errori popolari degli antichi“, in cui la luna compare come una presenza magica e misteriosa. La luna è qui la complice di sguardi segreti, di silenzi incompresi.

Siamo dunque nel 1817, il colloquio con la luna nasce da un bisogno di fantasia e da una esigenza di amore, continuerà ininterrotto fino al 1837 e dimostrerà che quella di Giacomo è una visione molto diversa da quella ereditata dal padre, un’arida visione materialista e meccanicistica.

Del satellite della terra così ne parla nel [i]Frammento XXXIX[/i] che costituiva l’inizio di una cantica in terza rima composta tra il novembre e il dicembre del 1816 dal titolo [i]Appressamento alla morte[/i].

[i]Spandea il suo chiaror per ogni banda

la sorella del sole, e fea d’argento

gli arbori ch’a quel loco eran ghirlanda.

Limpido il mar da lungi, e le campagne

e le foreste, e tutte ad una ad una

le cime si scoprìan delle montagne.

In queta ombra giacea la valle bruna,

e i collicelli intorno rivestia

del suo candor la rugiadosa luna.

Un nugol torbo, padre di procella,

sorgea di dietro ai monti, e crescea tanto,

che più non si scoprìa luna né stella.

. . .

Veniva il poco lume ognor più fioco;

[/i]

Del 1819 è il Frammento XXXVII:

{{*ExtraImg_219717_ArtImgRight_300x315_}}[i]Alceta: Odi, Melisso: io vo’ contarti un sogno

di questa notte, che mi torna a mente

in riveder la luna. Io me ne stava

alla finestra che risponde al prato,

guardando in alto: ed ecco all’improvviso

distaccasi la luna; e mi parea

che quanto nel cader s’approssimava,

tanto crescesse al guardo, infin che venne

a dar di colpo in mezzo al prato, ed era

grande quanto una secchia, e di scintille

vomitava una nebbia, che stridéa

sí forte come quando un carbon vivo

nell’acqua immergi e spegni. Anzi a quel modo

la luna, come ho detto, in mezzo al prato

si spegneva annerando a poco a poco,

e ne fumavan l’erbe intorno intorno.

[/i]

[i]. . .

allor mirando in ciel, vidi rimaso

come un barlume, o un’orma, anzi una nicchia,

ond’ella fosse svelta; in cotal guisa,

ch’io n’agghiacciava: e anco non m’assicuro.

Melisso: E ben hai da temer, che agevol cosa

fora cader la luna in sul campo.

Asceta: Chi sa? non veggiam noi spesso di state

cader le stelle?

Melisso: Egli ci ha tante stelle,

che picciol danno è cader l’una o l’altra

di loro, e mille rimaner. Ma sola

ha questa luna il ciel, che da nessuno

cader fu vista mai, se non in sogno.[/i]

{{*ExtraImg_219715_ArtImgRight_300x361_}}Ciò che resta in cielo, divelta la luna, è una «nicchia scura»: l’ombelico del nulla.

Un’angoscia fantasiosa ma allo stesso tempo pregante che traspare anche in un altro frammento, il XXXIX, nel quale si delinea una luna allegorica. La luna è una invenzione poetica, un surrogato affettivo dell’io, una interlocutrice immaginaria e inventata (che si metamorfizzerà nella Donna ideale, in Silvia, Nerina, Aspasia), filtrata attraverso i modelli letterari, soprattutto Tasso, Virgilio e Saffo.

[i]Gli astri intorno alla bella Luna

nascondono ancora il volto di luce

quando nel plenilunio si rischiara

tutta la terra.

La Luna dalle rosee dita

offusca ogni stella, e si dilata

la luce sul mare salmastro

e sui mille fiori delle pianure.

Cade la bella rugiada…

E’ tramontata la Luna

e le Pleiadi. E’ mezzanotte,

il tempo trascorre

e io dormo sola.

[/i]

“[i]La sera del dì di festa[/i]“ del 1820 trasforma l’incipit con la sua luna in una ninna nanna che illumina tutto un mondo intimo.

[i]Dolce e chiara è la notte e senza vento

e queta sovra i tetti e in mezzo agli orti

posa la luna e di lontan rivela

serena ogni montagna. [/i]

Ne [i]La vita solitaria[/i], composta nello stesso anno, sembra di assistere come ad una riappacificazione tra il poeta e la luna.

[i]O cara luna, al cui tranquillo raggio

danzan le lepri nelle selve; e duolsi

la mattina il cacciator, che trova

l’orme intricate e false; e dai covili

error vario lo svia; salve, o benigna

delle notti reina.

[/i]

{{*ExtraImg_219716_ArtImgRight_300x199_}}Dopo aver affermato che «[i]infesto scende/ il raggio[/i]», «[i]il bianco (livido) lume[/i]» suo sul ladro, sull’adultero e sulle menti malvagie, così continua:

[i]a me sempre benigno il tuo cospetto

sarà per queste piagge, ove non altro

che lieti colli e spaziosi campi

m’apri alla vista. Ed ancor io soleva,

bench’innocente io fossi, il tuo vezzoso

raggio accusar negli abitati lochi,

quand’ei m’offriva al guardo umano, e quando

scopriva umani aspetti al guardo mio.

Or sempre loderollo, o ch’io ti miri

veleggiar tra le nubi, o che serena

dominatrice dell’etereo campo,

questa flebil riguardi umana sede.

Me spesso rivedrai solingo e muto

errar pe’ boschi e per le verdi rive,

o seder sovra l’erbe, assai contento

se core o lena a sospirar m’avanza.

[/i]

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[url”LA LUNA DEI LUNATICI E ALTRE LUNE”]http://ilcapoluogo.globalist.it/Detail_News_Display?ID=109107&typeb=4&Loid=153&La-luna-dei-lunatici-e-altre-lune[/url]

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