
di Valter Marcone
SECONDA PARTE
Nel 1822 compone [i]Alla primavera[/i] o delle favole antiche: La luna è confusa con Espero, la stella di Venere, la dea dell’amore.
[i]Conscie le molli
aure, le nubi e la titania lampa
fur dell’umana gente, allor che ignuda
te per le piagge e i colli,
ciprigna luce, alla deserta notte
con occhi intenti il viator seguendo,
te compagna alla via, te de’ mortali
pensosa immaginò.[/i]
{{*ExtraImg_221434_ArtImgRight_300x362_}}Nell’[i]Inno ai patriarchi[/i] o [i]de’ principii del genere umano[/i] c’è ancora un breve accenno alla «aurea luna». Tra la stessura dei due componimenti, lo stesso anno scrive [i]L’ultimo canto di Saffo[/i] con un incipit quasi maestoso, tutto riferito alla luna che è però, in questo caso, una immagine luciferina.
[i]Placida notte, e verecondo raggio
della cadente luna; e tu che spunti
fra la tacita selva in su la rupe,
nunzio del giorno;[/i]
Incipit rinforzato all’inizio della strofe successiva:
[i]Bello il tuo manto, o divo cielo, e bella
sei tu, rorida terra[/i]
{{*ExtraImg_221435_ArtImgRight_300x300_}}Il “ricordo”, a volte prepotentemente, prende la mano a Leopardi. Che lo sente, nella sua natura di uomo come piacevole o doloroso. Tra queste due sponde, a volte inconciliabili, si dibatte il sentimento leopardiano del ricordo che esprime la condizione esistenziale dell’uomo.
Il ricordo appare anche in forma più filosofica in alcune pagine dello [i]Zibandone[/i]. Per combattere il Nulla che è ripugnante nella sua essenza il ritorno delle cose passate è un forte aiuto, è un modo di rivivere realmente nel presente affetti ed esperienze, in una continua rinascita, che fa rivivere anche i luoghi.
{{*ExtraImg_221436_ArtImgRight_300x300_}}“[i]Alla luna[/i]” è uno dei piccoli idilli. Scritto probabilmente nel 1819, in origine si intitolava “[i]La ricordanza[/i]”, utilizzata poi al plurale per intitolare uno dei grandi idilli: “[i]Le ricordanze[/i]”.
Componendo “[i]Alla Luna[/i]”, Leopardi si innalza proprio all’altezza della luna, al di sopra della realtà del pianeta terra, per poi tornarvi quasi in caduta libera, che è poi una dolorosa scoperta della perdita della illusione che il domani sarebbe stato migliore. La luna è una donna graziosa che allevia il pianto umano, compare per rischiarare la selva e per ridare agli occhi del poeta, che sono velati dal pianto, nuovo vigore.
Nel “[i]Canto notturno di un pastore errante dell’Asia[/i]” il colloquio con la luna è un topos letterario. I nomadi asiatici hanno la consuetudine di sedersi a guardare la luna e meditare. Leopardi trae ispirazioni da questa usanza. La luna diventa non solo confidente ideale del pastore, presenza consolatrice, ma anche e soprattutto entità divina alla quale si domandano risposte a quesiti esistenziali.
Il pastore errante conserva in sé quella naturalezza e quella primitiva innocenza che gli permette di entrare in sintonia con le verità essenziali dell’universo che l’uomo moderno non riesce più a comprendere pienamente.
Alla luna sono poste domande. Irrisolte e per questo dolorose. Domande sul significato della vita che a volte diventa un cammino senza senso, una esistenza senza significato. Solo la luna però conosce quello che turba l’animo umano, il destino di esistenze nelle quali riesce a penetrare. La luna, dunque, ultimo appiglio a cui aggrapparsi in una ricerca di senso. Vanamente. La luna come la natura in generale rimane indifferente. Non esiste meraviglia del vivente e non si incontrano approcci umani e divini.
Quindi la Luna diventa il simbolo di una solida realtà, quella della natura che lega gli uomini al presente, al quotidiano, la mondo in cui vivono. Ma la vera felicità è quella di attendere, quietamente, l’avverarsi di una speranza di un mondo e di un destino migliore per l’uomo. Un uomo che sa e deve rimanere al suo posto. Senza inquietudini e senza fretta di godere quel mondo migliore a lungo auspicato e che immancabilmente verrà. ([i]Zibaldone, 76, III[/i]).
{{*ExtraImg_221437_ArtImgRight_300x315_}}Per lui la luna è il simbolo di tutta una realtà solida e indefinita della Natura, che lega gli uomini alla terra, li fa essere pratici e concreti in tutti i loro gesti quotidiani e li fa essere leggeri, soprattutto capaci di godere serenamente di ciò che sono al presente. La somma felicità possibile dell’uomo in questo mondo è quando egli vive quietamente nel suo stato con una speranza riposata e certa di un avvenire molto migliore, che per essere certa è lo stato in cui vive buono, non lo inquieti e non lo turbi coll’impazienza di godere di questo immaginato bellissimo futuro… “contento del presente” ([i]Zibaldone, 76, III[/i]).
ALLA LUNA
O graziosa luna io mi rammento
Che or volge l’anno, sovra questo colle
Io venia pien d’angoscia rimirarti:
e tu pendevi allor su quella selva
siccome or fai, che tutta la rischiari:
Ma nebuloso e tremulo dal pianto
Che mi sorgea sul ciglio, alle mie luci
Il tuo volto apparia, chè travaglliosa
Era mia vita: ed è, né cangia stile.
O mia diletta luna. E pur mi giova
La ricordanza, e il noverar l’etade
Del mio dolor. Oh come grato occorre
Nel tempo giovanil, quando ancor lungo
La speme e breve ha la memoria il corso,
Il rimembrar delle passate cose,
Ancor che triste, e che l’affanno duri!
IL TRAMONTO DELLA LUNA
Quale in notte solinga,
sovra campagne inargentate ed acque
là ‘ve zefiro aleggia,
e mille vaghi aspetti
e ingannevoli obbietti
fingon l’ombre lontane
infra l’onde tranquille
e rami e siepi e collinette e ville;
giunta al confin del cielo,
dietro Appennino od Alpe, o del Tirreno
nell’infinito seno
scende la luna; e si scolora il mondo;
spariscon l’ombre, ed una
oscurità la valle e il monte imbruna;
orba la notte resta,
e cantando, con mesta melodia,
l’estremo albor della fuggente luce,
che dianzi gli fu duce,
saluta il carrettier da la sua via;
tal si dilegua, e tale
lascia l’età mortale
la giovinezza.
CANTO NOTTURNO DI UN PASTORE ERRANTE DELL’ASIA
Che fai tu, Luna, in ciel’ dimmi, che fai
Silenziosa Luna?
Sorgi la sera, e vai,
Contemplando i deserti; indi ti posi
Ancor non sei tu paga
Di riandar i sempiterni calli?
Ancor non prendi a schivo, ancor sei vaga
Di mirar queste valli?
Somiglia alla tua vita
La vita del pastore.
Sorge in sul primo albore,
Move la greggia oltre pel campo, e vede
Greggi, fontane ed erbe;
Poi stanco si riposa in su la sera:
Altro mai non ispera,
Dimmi, o Luna: a che vale
Al pastor la sua vita
La vostra vita a voi? dimmi: ove tende
Questo vagar mio breve,
Il tuo corso immortale?
Vecchierel bianco, infermo,
Mezzo vestito e scalzo,
Con gravissimo fascio in su le spalle
Per montagna e per valle,
Per sassi acuti, ed alta rena, e fratte,
Al vento, alla tempesta, e a quando avvampa
L’ora, e quando poi gela
Corre via, corre, e anela,
Varca torrenti e stagni,
Cade, risorge, e più e più s’affretta
Senza posa o ristoro,
Lacero, sanguinoso; infin ch’arriva Coà dove la via
E dove il tanto affaticar fu volto:
Abisso orrido, immenso,
Ov’ei precipitando, il tutto oblia.
Vergine Luna, tale
E’ la vita mortale.
Nasce l’uomo a fatica,
Ed è rischio di morte il nascimento.
Prova pena e tormento
Per prima cosa; e in sul principio stesso
La madre e il genitore
Il prende a consolar dell’esser nato:
Poi che crescendo viene,
L’uno e l’altro il sostiene, e via pur sempre
Con atti e con parole
Studiasi fargli core, E consolarlo dell’umano stato;
Altro ufficio più grato
Non si fa dai parenti alla lor prole:
Ma perché dare al sole,
Perché reggere in vita
Chi poi di quella consolar convenga?
Se la vita è sventura, Perché da noi si dura?
Intatta luna, tale
E’ lo stato mortale,
Ma tu mortal non sei,
E forse del mio dir poco ti cale.
Pur tu, solinga, eterna peregrina,
Che sì pensosa sei, tu forse intendi,
Questo viver terreno,
Il patir nostro, il sospirar che sia;
Che sia questo morir, questo supremo
Scolorar del sembiante,
E perir dalla terra e venir meno
Ad ogni usata, amante compagnia.
E tu certo comprendi
Il perché delle cose, e vedi il frutto
Del mattin, della sera,
Del tacito, infinito andar del tempo.
Tu sai, tu certo, a qual suo dolce amore
Rida la primavera,
A chi giovi l’ardore, e che procacci
Il verno co’ suoi ghiacci.
Mille cose sai tu, mille discopri,
Che son celate al semplice pastore.
Spesso quand’io ti miro
Star così muta in sul deserto piano.
Che, in suo giro lontano, al ciel confina;
Ovver con la mia greggia
Seguirmi viaggiando a mano a mano;
E quando miro in ciel arder le stelle;
Dico fra me pensando:
A che tante favelle?
Che fa l’aria infinita, e quel profondo
Infinito seren? Che vuol dir questa
Solitudine immensa? ed io che sono?
Così meco ragiono: e dalla stanza
Smisurata e superba,
E dell’innumerabile famiglia;
Poi di tanto adoprar, di tanti moti
D’ogni celeste, ogni terrena cosa,
Girando senza posa,
Per tornar sempre là donde son mosse:
Uso alcuno, alcun frutto
Indovinar non so. Ma tu per certo,
Giovinetta immortal, conosci il tutto:
Questo io conosco e sento,
Che degli eterni giri,
Che dell’esser mio frale,
Qualche bene o contento
Avrà fors’altri; a me la vita è male.
O greggia mia che posi, oh te beata,
Che la miseria tua, credo, non sai!
Quanta invidia ti porto!
Non sol perché d’affanno
Quasi libera vai;
Ch’ogni stento, ogni danno
Ogni estremo timor subito scordi;
Ma più perché giammai tedio non provi,
Quando tu siedi all’ombra, sovra l’erbe,
Tu se’ quieta e contenta,
E gran parte dell’anno
Senza noia consumi in quello stato.
Ed io pur seggio sovra l’erbe, all’ombra,
E un fastidio m’ingombra
La mente; ed uno spron quasi mi punge
Sì che, sedendo, più che mai son lunge
Da trovar pace e loco.
E pur nulla non bramo,
E non ho fino a qui cagion di pianto:
Quel che tu goda o quanto,
Non so già dir; ma fortuna sei
Ed io godo ancor poco,
O greggia mia, né di ciò sol mi lagno.
Se tu parlar sapessi, io chiederei:
Dimmi: perché giacendo
A bell’agio, ozioso,
S’appaga ogni animale,
Me, s’io giaccio in riposo, il tedio assale?
Forse s’avess’ io l’ale
Da volar su le nubi,
E niverar le stelle ad una ad una,
O come il tuono errar di giogo in giogo,
Più felice sarei, dolce mia greggia,
Più felice sarei, candida luna.
O forse erra dal vero,
Mirando all’altrui sorte, il mio pensiero:
Forse in qual forma, in quale
Stato che sia, dentro covile o cuna,
E’ funesto a chi nasce il dì natale.
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