La luna di Giacomo Leopardi

27 ottobre 2014 | 14:35
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La luna di Giacomo Leopardi

di Valter Marcone

SECONDA PARTE

Nel 1822 compone [i]Alla primavera[/i] o delle favole antiche: La luna è confusa con Espero, la stella di Venere, la dea dell’amore.

[i]Conscie le molli

aure, le nubi e la titania lampa

fur dell’umana gente, allor che ignuda

te per le piagge e i colli,

ciprigna luce, alla deserta notte

con occhi intenti il viator seguendo,

te compagna alla via, te de’ mortali

pensosa immaginò.[/i]

{{*ExtraImg_221434_ArtImgRight_300x362_}}Nell’[i]Inno ai patriarchi[/i] o [i]de’ principii del genere umano[/i] c’è ancora un breve accenno alla «aurea luna». Tra la stessura dei due componimenti, lo stesso anno scrive [i]L’ultimo canto di Saffo[/i] con un incipit quasi maestoso, tutto riferito alla luna che è però, in questo caso, una immagine luciferina.

[i]Placida notte, e verecondo raggio

della cadente luna; e tu che spunti

fra la tacita selva in su la rupe,

nunzio del giorno;[/i]

Incipit rinforzato all’inizio della strofe successiva:

[i]Bello il tuo manto, o divo cielo, e bella

sei tu, rorida terra[/i]

{{*ExtraImg_221435_ArtImgRight_300x300_}}Il “ricordo”, a volte prepotentemente, prende la mano a Leopardi. Che lo sente, nella sua natura di uomo come piacevole o doloroso. Tra queste due sponde, a volte inconciliabili, si dibatte il sentimento leopardiano del ricordo che esprime la condizione esistenziale dell’uomo.

Il ricordo appare anche in forma più filosofica in alcune pagine dello [i]Zibandone[/i]. Per combattere il Nulla che è ripugnante nella sua essenza il ritorno delle cose passate è un forte aiuto, è un modo di rivivere realmente nel presente affetti ed esperienze, in una continua rinascita, che fa rivivere anche i luoghi.

{{*ExtraImg_221436_ArtImgRight_300x300_}}“[i]Alla luna[/i]” è uno dei piccoli idilli. Scritto probabilmente nel 1819, in origine si intitolava “[i]La ricordanza[/i]”, utilizzata poi al plurale per intitolare uno dei grandi idilli: “[i]Le ricordanze[/i]”.

Componendo “[i]Alla Luna[/i]”, Leopardi si innalza proprio all’altezza della luna, al di sopra della realtà del pianeta terra, per poi tornarvi quasi in caduta libera, che è poi una dolorosa scoperta della perdita della illusione che il domani sarebbe stato migliore. La luna è una donna graziosa che allevia il pianto umano, compare per rischiarare la selva e per ridare agli occhi del poeta, che sono velati dal pianto, nuovo vigore.

Nel “[i]Canto notturno di un pastore errante dell’Asia[/i]” il colloquio con la luna è un topos letterario. I nomadi asiatici hanno la consuetudine di sedersi a guardare la luna e meditare. Leopardi trae ispirazioni da questa usanza. La luna diventa non solo confidente ideale del pastore, presenza consolatrice, ma anche e soprattutto entità divina alla quale si domandano risposte a quesiti esistenziali.

Il pastore errante conserva in sé quella naturalezza e quella primitiva innocenza che gli permette di entrare in sintonia con le verità essenziali dell’universo che l’uomo moderno non riesce più a comprendere pienamente.

Alla luna sono poste domande. Irrisolte e per questo dolorose. Domande sul significato della vita che a volte diventa un cammino senza senso, una esistenza senza significato. Solo la luna però conosce quello che turba l’animo umano, il destino di esistenze nelle quali riesce a penetrare. La luna, dunque, ultimo appiglio a cui aggrapparsi in una ricerca di senso. Vanamente. La luna come la natura in generale rimane indifferente. Non esiste meraviglia del vivente e non si incontrano approcci umani e divini.

Quindi la Luna diventa il simbolo di una solida realtà, quella della natura che lega gli uomini al presente, al quotidiano, la mondo in cui vivono. Ma la vera felicità è quella di attendere, quietamente, l’avverarsi di una speranza di un mondo e di un destino migliore per l’uomo. Un uomo che sa e deve rimanere al suo posto. Senza inquietudini e senza fretta di godere quel mondo migliore a lungo auspicato e che immancabilmente verrà. ([i]Zibaldone, 76, III[/i]).

{{*ExtraImg_221437_ArtImgRight_300x315_}}Per lui la luna è il simbolo di tutta una realtà solida e indefinita della Natura, che lega gli uomini alla terra, li fa essere pratici e concreti in tutti i loro gesti quotidiani e li fa essere leggeri, soprattutto capaci di godere serenamente di ciò che sono al presente. La somma felicità possibile dell’uomo in questo mondo è quando egli vive quietamente nel suo stato con una speranza riposata e certa di un avvenire molto migliore, che per essere certa è lo stato in cui vive buono, non lo inquieti e non lo turbi coll’impazienza di godere di questo immaginato bellissimo futuro… “contento del presente” ([i]Zibaldone, 76, III[/i]).

ALLA LUNA

O graziosa luna io mi rammento

Che or volge l’anno, sovra questo colle

Io venia pien d’angoscia rimirarti:

e tu pendevi allor su quella selva

siccome or fai, che tutta la rischiari:

Ma nebuloso e tremulo dal pianto

Che mi sorgea sul ciglio, alle mie luci

Il tuo volto apparia, chè travaglliosa

Era mia vita: ed è, né cangia stile.

O mia diletta luna. E pur mi giova

La ricordanza, e il noverar l’etade

Del mio dolor. Oh come grato occorre

Nel tempo giovanil, quando ancor lungo

La speme e breve ha la memoria il corso,

Il rimembrar delle passate cose,

Ancor che triste, e che l’affanno duri!

IL TRAMONTO DELLA LUNA

Quale in notte solinga,

sovra campagne inargentate ed acque

là ‘ve zefiro aleggia,

e mille vaghi aspetti

e ingannevoli obbietti

fingon l’ombre lontane

infra l’onde tranquille

e rami e siepi e collinette e ville;

giunta al confin del cielo,

dietro Appennino od Alpe, o del Tirreno

nell’infinito seno

scende la luna; e si scolora il mondo;

spariscon l’ombre, ed una

oscurità la valle e il monte imbruna;

orba la notte resta,

e cantando, con mesta melodia,

l’estremo albor della fuggente luce,

che dianzi gli fu duce,

saluta il carrettier da la sua via;

tal si dilegua, e tale

lascia l’età mortale

la giovinezza.

CANTO NOTTURNO DI UN PASTORE ERRANTE DELL’ASIA

Che fai tu, Luna, in ciel’ dimmi, che fai

Silenziosa Luna?

Sorgi la sera, e vai,

Contemplando i deserti; indi ti posi

Ancor non sei tu paga

Di riandar i sempiterni calli?

Ancor non prendi a schivo, ancor sei vaga

Di mirar queste valli?

Somiglia alla tua vita

La vita del pastore.

Sorge in sul primo albore,

Move la greggia oltre pel campo, e vede

Greggi, fontane ed erbe;

Poi stanco si riposa in su la sera:

Altro mai non ispera,

Dimmi, o Luna: a che vale

Al pastor la sua vita

La vostra vita a voi? dimmi: ove tende

Questo vagar mio breve,

Il tuo corso immortale?

Vecchierel bianco, infermo,

Mezzo vestito e scalzo,

Con gravissimo fascio in su le spalle

Per montagna e per valle,

Per sassi acuti, ed alta rena, e fratte,

Al vento, alla tempesta, e a quando avvampa

L’ora, e quando poi gela

Corre via, corre, e anela,

Varca torrenti e stagni,

Cade, risorge, e più e più s’affretta

Senza posa o ristoro,

Lacero, sanguinoso; infin ch’arriva Coà dove la via

E dove il tanto affaticar fu volto:

Abisso orrido, immenso,

Ov’ei precipitando, il tutto oblia.

Vergine Luna, tale

E’ la vita mortale.

Nasce l’uomo a fatica,

Ed è rischio di morte il nascimento.

Prova pena e tormento

Per prima cosa; e in sul principio stesso

La madre e il genitore

Il prende a consolar dell’esser nato:

Poi che crescendo viene,

L’uno e l’altro il sostiene, e via pur sempre

Con atti e con parole

Studiasi fargli core, E consolarlo dell’umano stato;

Altro ufficio più grato

Non si fa dai parenti alla lor prole:

Ma perché dare al sole,

Perché reggere in vita

Chi poi di quella consolar convenga?

Se la vita è sventura, Perché da noi si dura?

Intatta luna, tale

E’ lo stato mortale,

Ma tu mortal non sei,

E forse del mio dir poco ti cale.

Pur tu, solinga, eterna peregrina,

Che sì pensosa sei, tu forse intendi,

Questo viver terreno,

Il patir nostro, il sospirar che sia;

Che sia questo morir, questo supremo

Scolorar del sembiante,

E perir dalla terra e venir meno

Ad ogni usata, amante compagnia.

E tu certo comprendi

Il perché delle cose, e vedi il frutto

Del mattin, della sera,

Del tacito, infinito andar del tempo.

Tu sai, tu certo, a qual suo dolce amore

Rida la primavera,

A chi giovi l’ardore, e che procacci

Il verno co’ suoi ghiacci.

Mille cose sai tu, mille discopri,

Che son celate al semplice pastore.

Spesso quand’io ti miro

Star così muta in sul deserto piano.

Che, in suo giro lontano, al ciel confina;

Ovver con la mia greggia

Seguirmi viaggiando a mano a mano;

E quando miro in ciel arder le stelle;

Dico fra me pensando:

A che tante favelle?

Che fa l’aria infinita, e quel profondo

Infinito seren? Che vuol dir questa

Solitudine immensa? ed io che sono?

Così meco ragiono: e dalla stanza

Smisurata e superba,

E dell’innumerabile famiglia;

Poi di tanto adoprar, di tanti moti

D’ogni celeste, ogni terrena cosa,

Girando senza posa,

Per tornar sempre là donde son mosse:

Uso alcuno, alcun frutto

Indovinar non so. Ma tu per certo,

Giovinetta immortal, conosci il tutto:

Questo io conosco e sento,

Che degli eterni giri,

Che dell’esser mio frale,

Qualche bene o contento

Avrà fors’altri; a me la vita è male.

O greggia mia che posi, oh te beata,

Che la miseria tua, credo, non sai!

Quanta invidia ti porto!

Non sol perché d’affanno

Quasi libera vai;

Ch’ogni stento, ogni danno

Ogni estremo timor subito scordi;

Ma più perché giammai tedio non provi,

Quando tu siedi all’ombra, sovra l’erbe,

Tu se’ quieta e contenta,

E gran parte dell’anno

Senza noia consumi in quello stato.

Ed io pur seggio sovra l’erbe, all’ombra,

E un fastidio m’ingombra

La mente; ed uno spron quasi mi punge

Sì che, sedendo, più che mai son lunge

Da trovar pace e loco.

E pur nulla non bramo,

E non ho fino a qui cagion di pianto:

Quel che tu goda o quanto,

Non so già dir; ma fortuna sei

Ed io godo ancor poco,

O greggia mia, né di ciò sol mi lagno.

Se tu parlar sapessi, io chiederei:

Dimmi: perché giacendo

A bell’agio, ozioso,

S’appaga ogni animale,

Me, s’io giaccio in riposo, il tedio assale?

Forse s’avess’ io l’ale

Da volar su le nubi,

E niverar le stelle ad una ad una,

O come il tuono errar di giogo in giogo,

Più felice sarei, dolce mia greggia,

Più felice sarei, candida luna.

O forse erra dal vero,

Mirando all’altrui sorte, il mio pensiero:

Forse in qual forma, in quale

Stato che sia, dentro covile o cuna,

E’ funesto a chi nasce il dì natale.

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