
di Raffaella De Nicola
Artici. Toni artici quelli dei giudici. Abbottonati quelli del presidente della regione Abruzzo, Luciano D’Alfonso. Ma non certo quelli che partono lì, dallo stomaco, l’intimo miserere di una carne senza resurrezione, lo sguardo tombale che si vuole abbassare per sempre, non sentire più nulla. Umanità diverse sotto lo stesso cielo.
Lì dietro un muro di Berlino, le toghe nere, l’invito premonitore, che bacchetta, a mantenere il silenzio, il martelletto scende, tumula e condanna, al carcere a vita, in celle sanguigne, la rabbia dei familiari e di una città. La giustizia, silenziata, scivola via, fra le dita, inafferrabile come acqua.
Scava, questa sentenza. Seppellisce le parole che il giudice Marco Billi aveva pronunciato, il coraggio che riparava. Dove vivono, ora, quelle parole? Dove ritrovarle con quella pace, senza pace, che portavano? E quelle per Cucchi, morto, forse, di vecchiaia? E quelle nascoste nella zona grigia del verdetto su Saviano? E quelle chiare, trasparenti, che non sono state scritte il 31 marzo 2009 da un commissione Grande rischi che a questo punto chiediamo a cosa serva?
Aleggiano, ancora, nel tribunale dell’Aquila le parole della sentenza vergogna del Vajont, i visi patiniani coperti dal lutto di una tragedia non prevista ma prevedibile già allora, le lacrime secche della gente veneta tatuate su quelle aule, il tempo futuro contenuto nel tempo passato che torna.
Placche di ghiaccio di una giustizia non riconoscibile capovolgono, incredibilmente, verdetti già espressi, li affondano, si scontrano come iceberg contro vite, e comunità, civilissime, mentre le motivazioni saranno lette e quegli idiomi, agganciati a numeri di legge e cavilli, saranno lontani, lontanissimi, dai rumori familiari di quell’ultima cena di aprile.
In agenda: giovedì 13 novembre alle 18,30 alla Villa Comunale manifestazione cittadina per dire no a uno Stato che assolve se stesso.